giovedì 25 novembre 2010

Metropoliz-Corviale tanto diversi tanto simili (di Andrea Balbi)

Dopo la presentazione del workshop fatta dal professore Careri, come molti altri studenti della facoltà di architettura credo di poter affermare che in pochi si sarebbero aspettati di venire catapultati direttamente a lavorare sul luogo a pieno contatto con la gente che in maniera diversa si è conquistata il diritto di vivere all' interna di quella che risulta essere una vera e propria comunità.
Una volta arrivati il primo pensiero che è saltato in mente è stato che quello di Metropoliz è un pezzo di città dove però non si sente assolutamente l' influenza o il senso di appartenenza e quello che è e rappresenta Roma. Tuttalpiù sembrava più di trovarsi di fronte ad un luogo dove sia per motivi di integrazione sia per motivi di sicurezza si cercasse proprio di lasciare la città oltre il cancello, che rimaneva costantemente chiuso e dove solo alcune persone erano in possesso delle chiavi.
Trovandomi di fronte ad una situazione del genere, essendo io attualmente impegnato in una associazione che lavora sul quartiere di Corviale, mi è venuto istantaneo fare un confronto e un paragone con due modi di vivere in due aree classificate da molti come zone poco sicure.
In comune con il “serpentone” Metropoliz” ha dal mio punto di vista la ricerca voluta o relativamente imposta di creare un sistema al suo interno di vita che sia auto-sufficiente rispetto alla città. Ciò come accennato prima è dovuto spesso dalla paura di aprirsi alla città per evitare il confronto non sempre pacifico con chi abita nei dintorni; ma credo che ci sia anche una componete di organizzazione non sempre criminale il quale vuole che questi quartieri rimangano estranei e chiusi rispetto al contesto che vi è intorno. Questo accade perchè (nel caso di Corviale è più evidente) i “capi” della zona in questa maniera riescono a tenere più facilmente il controllo se le persone che vi abitano vedono l' esterno più come un nemico che come un opputunità.
Il problema è che risulta estremamente complicato riuscire ad affrontare delle problematiche complesse come questa vivendo solo una settimana in una realtà come Metropoliz; ci sarebbe bisogno di più contatto anche per avere la fiducia delle persone che vi abitano.
Quello che sono riuscito a capire in questa breve settimana è che nonostante i vari meccanismi sociali presenti in questa micro società eterogenea con il nostro piccolo intervento siamo riusciti a trasmettere, non so quanto nel profondo, un senso di appartenenza e amore verso il proprio terreno agli abitanti; spero solo che ora questo progetto venga portato avanti, ma non da gente esterna che giustamente vuole dare il suo contributo, ma piuttosto dalle persone interne che lo fanno per rendere Metropoliz sempre più una società che si possa integrare del tutto con Roma.

mercoledì 24 novembre 2010

Foto

vi incollo la mail che mi ha mandato Flavio

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Ho creato una pagina flickr di Metropoliz dove potete scaricare le foto che preferite.

http://www.flickr.com/photos/graviglia_metropoliz/sets/72157625452999202/


Per farlo cliccate con il tasto destro sull’immagine_visualizza tutte le dimensioni_grande

vi salvate la foto o ve la scaricate con l’apposito tasto.
Presto posterò le foto fatte durante gli altri giorni.


In alternativa quando mi incontrate all’università vi passo la cartella con le foto,

saluti,
Flavio Graviglia

lunedì 22 novembre 2010

La città invisibile (di Valeria Lollobattista)

A uno che arrivi a Metropoliz in un momento qualsiasi, come una mattina piovosa di novembre, capita di vedere delle cose. Il problema, semmai, è arrivarci (non nel senso del trasporto - che pure può essere difficoltoso). E' uno di quei posti in cui si va se si è portati, da qualcuno o da qualcosa, perché ci si può passare davanti anche mille volte senza accorgersi che esiste, a dispetto delle dimensioni.

Dietro un cancello, lungo la via Prenestina, si estende Metropoliz, città a suo modo: con la sua complessità, le sue reti di relazioni, le sue istituzioni; fondata su regole proprie e sostenuta da una sua economia, interna ed esterna. Città parallela, perché esiste un interno e un esterno e un confine più o meno fisico che separa "quelli di fuori" da "quelli di dentro"; città meticcia, città poliglotta, città in (auto)costruzione, città illegale, città-fabbrica, città-casa.

Con queste premesse si capisce che, capitando nella città invisibile, accade di vedere molte cose.

Vedere, prima ancora di imparare, perché aver imparato è già aver digerito - giudicato, in qualche modo. Non mi riferisco soltanto ai pregiudizi, ma anche e soprattutto all'entusiasmo, alla soddisfazione, al valore umano dell'esperienza. Mi sembra che valga la pena regalare tutto ciò all'imperfezione del momento, alla parzialità dell'opinione; mentre quanto visto rimane negli occhi, costruisce consapevolezza, e continua a lavorare - potenzialmente - in tutte le azioni e riflessioni future. Mi interessa aver visto, più di aver tirato somme; mi interessa che la città, entrando a Metropoliz, conosca, ancora prima di trarre insegnamenti.

(La città instabile. Una riflessione aggiunta)

In particolare, vedendo l'invisibile, conosce una condizione di instabilità e una disponibilità alla trasformazione.

Se accogliamo la definizione di A. Amin e N. Thrift ', ci possiamo chiedere cosa succede quando la comunità pianificata incontra qualcosa di diverso, se lo stadio avanzato di definizione e pianificazione che caratterizza la città contemporanea ha la possibilità di confrontarsi con lo stadio embrionale nel quale invece si trova Metropoliz, con il suo carico di potenziale.


Se si pensa di tornare a Metropoliz tra un anno, o anche tra un mese, ci si aspetta di trovare qualcosa di diverso; anche tutto, in linea di principio. A Metropoliz sono possibili cose che fuori appaiono impensabili; ma non è questione di mancanza di regole, che pure sono date, quanto di spazi di possibilità, dovuti proprio ad una certa indefinizione o codificazione incompleta. Naturalmente tutto ciò si amplifica per l'eterogeneità delle persone e il carattere spesso transitorio della loro permanenza a Metropoliz, perciò si può anche immaginare che la tendenza alla codificazione insita nella vita urbana, possa in questo caso conoscere manifestazioni diverse e che l'instabilità diventi alla fine l'unica configurazione stabile, perché la possibilità di trasformazione è accolta già nell'idea di questi spazi, nel loro uso, nel loro significato.



T. Ottaviani, Il cielo in una stanza (Metropoliz, nov.2010)


' A. Amin, N. Thrift Città. Ripensare la dimensione urbana. Ed. Il Mulino – 2005

"La vita urbana è divenuta realmente più pianificata a causa dell'esistenza di varie tecnologie di controllo, in particolare della tirannia dell'indirizzo che prevale nelle società moderne, la città basata sugli imperativi dello stato nazione e sempre più sul commercio, è stata fissata , posizionata, guidata come non lo era mai stata in precedenza. Cartine geografiche, censimenti, codici di avviamento postale, prefissi teleselettivi, targhe automobilistiche e altri mezzi per definire la localizzazione...”





Michelangelo versus Metropoliz (di Guido Pederzoli)

La settimana del workshop del Prof. Careri ,passata nello stabile occupato del ex fabbrica Fiorucci sulla Prenestina, chiamato dai suoi occupanti “Metropoliz” è stata un esperienza molto forte,intensa e diversa rispetto agli altri corsi universitari.
Il tema che ho travato più interessante e che ho vissuto in prima persona è stato la riqualificazione di uno spazio pubblico in un luogo molto degradato.
Il mio lavoro e quello dei miei compagni è stato ricreare su una piccola piazzetta (circa 16m x 20m) la pavimentazione di Michelangelo a Piazza del Campidoglio.
Il primo giorno dei lavori ci siamo trovati di fronte a delle tematiche nuove:

1)come costruire il disegno geometrico.
2)come realizzare la pavimentazione.
3)come rendere partecipe gli abitanti del luogo.

Dopo un attimo di sconcerto,abbiamo deciso di rimboccarci le maniche e trovando per il cantiere del materiale e degli utensili , andando a comprare con una piccola spesa il resto dei materiali mancati , abbiamo iniziato a costruire il disegno fissando al terreno dei chiodi e misurando con assi e spaghi i vari incroci di cui avevamo bisogno.
La prima grande sorpresa fu che mentre noi lavoravamo e il disegno iniziava a uscire dall’asfalto gli abitanti delle case non davano nessun importanza al nostro lavoro e non sembravano neanche stupiti.
Il giorno dopo, appena arrivati abbiamo trovato distrutto il nostro lavoro dai bambini. Increduli dell’accaduto con grande amarezza abbiamo deciso di ricominciare da capo tutto il lavoro; la differenza però sostanziale e che abbiamo cercato di raccontare e spiegare il nostro lavoro e la storia del disegno alla comunità che si è subito interessata di più al progetto. I bambini che si dimostravano interessati si sono subito messi all’opera e mentre qualcuno di loro ci aiutava gli altri tenevano d’occhio i bambini più piccoli e scalmanati.
La cosa che ci ha dato più soddisfazione alla fine del lavoro è stato vedere come rendendo partecipe tutte le persone che usufruiranno dello spazio, il lavoro può diventare più facile e veloce.¬¬¬¬
Questo Workshop mi ha fatto percepire come attraverso un segno, un piccolo particolare, la vita sociale di un luogo può notevolmente migliorare.
Di come adesso all’interno di questo luogo ci si senta parte di una comunità o almeno all’interno di qualcosa di organizzato e non casuale.
So che il nostro piccolo intervento non avrà un miglioramento all’interno delle vite degli abitanti di metropoliz, ma credo fortemente che ogni volta che la sera si ritroveranno in quel piccolo rettangolo d’asfalto, avranno un po’ l’idea di sentirsi all’ interno di una piazza di un piccolo borgo e forse saranno più sereni e liberi di intraprendere un dialogo con i propri vicini come se fossero gli stessi abitanti del paese, anche se in realtà saranno persone molto diverse proveniente da tutto il mondo che hanno molte difficoltà linguistico-culturale nell’ avvicinarsi.

De Metropoliz à Métropole (di Jérôme Bertrand)

De Metropoliz à Métropole

Tout d’abord, j’aimerai souligner que ce Workshop a été pour moi une expérience pleinement enrichissante et pour le moins étonnante. Jamais je n’aurai imaginé effectuer une telle mission en choisissant ce groupe de travail. En effet, l’univers urbain avec ses règles et ses codes sociaux nous est familier et rassurant, mais en pénétrant dans ce microcosme, cette ville au cœur de la ville qui symbolise en quelque sorte l’inconnu, tous nos repères allaient bientôt voler en éclats. C’est donc avec énormément d’appréhension et de préjugés que je me suis rendu dans ce lieu insolite qu’est Metropoliz.

Et étrangement, en découvrant l’ancienne usine désaffectée et le site de Metropoliz je n’ai pas été effrayé mais plutôt fasciné. Il est très facile d’imaginer une multitude d’histoires en parcourant les nombreux espaces de ce bâtiment et toutes les potentialités qu’il offre.

Puis nous avons rencontré les habitants de cet endroit qui nous ont ouvert leur foyer et avec qui nous avons parlé, échangé... J’ai trouvé cet instant particulièrement intéressant puisqu’il laisse entrevoir comment un regroupement de plusieurs individus, chacun porteur d’une histoire et d’une culture, amorce les mécanismes d’organisation d’une société, même à petite échelle comme ici. De plus, nous pouvons sentir entres ces personnes une vraie solidarité.

Cependant, l’existence de cette société « illégale » et notre intervention par l’aménagement d’espaces dédiés aux habitants ne résout en rien un problème qui semble récurrent pour ces personnes, celui de l’intégration. Effectivement, en vivant dans cet espace aux allures de forteresse, je crois que ces occupants vivent en quelque sorte en autarcie alors qu’il leur faudrait penser un moyen de connecté Métropoliz à la métropole de Rome, dans le but de les intégrer et de faire évoluer leur situation.

Il me paraît donc tout à fait opportun d’encourager des interventions in situ tel que nous l’avons fait, car leur impacte semble bien plus fort et plus marquant qu’un travail conceptuel et mental réalisé sur papier, comme nous avons l’habitude de le faire avec le projet d’architecture par exemple. Aussi, c’est en ce sens que cette expérience a été pour moi extrêmement enrichissante. En effet, à l’image du personnage de Candide dans l’œuvre de Voltaire, qui grandit intellectuellement au fil de ses périples et mésaventures pour finalement devenir un homme accomplit à la fin du récit. Je pense que cette démarche a eu sur moi un impact beaucoup plus fort que je ne l’aurai imaginé. Et si ce changement d’opinion m’a concerné, il faut également donner cette opportunité à d’autres personnes car le contact permet d’apprécier la différence. Quand je suis arrivé à Metropoliz j’avais beaucoup de préjugés en tête et presque un peu peur de ces habitants que je pensais différents de moi, mais après une semaine passée dans ce lieu mon regard a complètement changé et j’étais mélancolique à l’idée de devoir quitter cet endroit et ces occupants. D’ailleurs, l’infime part de travail que nous avons accomplis pour les habitants de Metropoliz me paraît bien dérisoire face aux richesses, tant culturelles et humaines, que ces personnes nous ont donné en retour.



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Innanzitutto, amerò sottolineare che questo Workshop sia stato per me un'esperienza pienamente arricchita e perlomeno stupefacente. Mai non avrò immaginato effettuare una tale missione scegliendo questo gruppo di lavoro. Difatti, l'universo urbano con le sue regole ed i suoi codici sociali ci sono familiare e rassicurante, ma penetrando in questo microcosmo, questa città al questa città al c.ur della città che simboleggia in qualche modo l'ignoto, tutti i nostri riferimenti andavano a rubare presto in Questo è dunque con moltissimo apprensione e di pregiudizi che mi sono reso in questo luogo insolito che è Metropoliz.

E stranamente, scoprendo la vecchia fabbrica disabilitata ed il sito di Metropoliz non sono stato spaventato ma piuttosto affascinato. È molto facile immaginare una moltitudine di storie percorrendo i numerosi spazi di questo edificio e tutte le potenzialità che offre.

Poi abbiamo incontrato gli abitanti di questo luogo che ci hanno aperto il loro focolare e con che abbiamo parlato, scambiato... Ho trovato questo istante particolarmente interessante poiché lascia intravedere come un raggruppamento di parecchi individui, ciascuno portatore di una storia e di una cultura, inizia i meccanismi di organizzazione di una società, stesso a piccola scala come qui. Di più, possiamo sentire introduci queste persone una vera solidarietà.

Tuttavia, l'esistenza di questa società " illegale" ed il nostro intervento per la pianificazione di spazi dedicati agli abitanti non risolve in niente un problema che sembra ricorrente per queste persone, quello dell'integrazione. Effettivamente, vivendo in questo spazio alle andature di fortezza, credo che questi occupanti vivono in qualche modo in autarchia mentre occorrerebbe loro pensare un mezzo del connesso Métropoliz alla metropoli di Roma, nello scopo di integrarli e di fare evolversi la loro situazione.

Mi sembra completamente opportuno di incoraggiare degli interventi in situ dunque come l'abbiamo fatto, perché il loro impacte sembra buono più forte e più ragguardevole che un lavoro concettuale e mentale realizzato su carta, siccome abbiamo l'abitudine di farlo col progetto di architettura per esempio. Anche, è in questo senso che questa esperienza è stata per me estremamente arricchita. Infatti, come il personaggio di Candido di Voltaire nel lavoro, che cresce intellectualmente per tutto. E se questo cambiamento di opinione mi ha riguardato, bisogna dare anche questa opportunità ad altre persone perché il contatto permette di apprezzare la differenza. Quando sono arrivato a Metropoliz avevo molti pregiudizi in testa e quasi una poca paura di questi abitanti che pensavo differente di me, ma dopo una settimana passata in questo luogo il mio sguardo ha cambiato completamente ed ero malinconico all'idea di dovere lasciare questo luogo e questi occupanti. Del resto, l'infima parte di lavoro che abbiamo compiuto per gli abitanti di Metropoliz mi sembra molto irrisoria faccia alle ricchezze, tanto culturali ed umane, che queste persone ci hanno dato in ritorno.

domenica 21 novembre 2010

Piccola precisazione: "SOCIETÀ CIVILE"

ciao a tutti, una piccola precisazione da secchione, scusate ma penso sia importante per capire alcune dinamiche di cui abbiamo fatto parte a Metropoliz.

Ho trovato usata in diversi post, a volte in modo improprio, l'espressione 'società civile'. Per chi fosse interessato, in gergo, per Società Civile si intende l'insieme di quelle istituzioni e organizzazioni (università, gruppi di attivismo, charities, clubs, cooperative, gruppi culturali, fondazioni, Organizzazioni Non Governative, società senza scopo di lucro, albi professionali, organizzazione religiose, sindacati ecc) che sono alla base di una società, distinte dagli organismi riconducibili all'apparato Statale e al Mercato. Nella teoria gramsciana la Società Civile riveste un ruolo importantissimo. Vi incollo un estratto da wikipedia (in inglese, l'articolo corrispondente in italiano è molto riduttivo):

"Rather than posing it as a problem, as in earlier Marxist conceptions, Gramsci viewed civil society as the site for problem-solving. Agreeing with Gramsci, the New Left assigned civil society a key role in defending people against the state and the market and in asserting the democratic will to influence the state. At the same time, Neo-liberal thinkers consider civil society as a site for struggle to subvert Communist and authoritarian regimes. Thus, the term civil society occupies an important place in the political discourses of the New Left and Neo-liberals."

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Colgo l'occasione per dirvi che finiremo di commentare i post nei prossimi due/tre giorni (spero, siete tantissimi!).
Ringrazio i ragazzi che hanno replicato ai commenti (davvero molto apprezzato) e invito tutti a farlo, anche tra di voi.

Buonanotte!
Giorgio

sabato 20 novembre 2010

Luoghi e forme della condivisione (di Cristina Ciccone)

”Le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d’un linguaggio; le città sono luoghi di scambio, ma non soltanto scambi di merci, ma scambi di parole, di desideri, di ricordi.”
“Le città invisibili” Italo Calvino

Curiosità ed entusiasmo ma anche perplessità e timore davanti a quel cancello, all’ingresso di una città parallela a noi sconosciuta, in quel luogo apparentemente cosi ostile. Un ‘esperienza che lascia il segno, che ti fa riflettere mentre la vivi e che, ripercorri con la mente per riassaporarne le emozioni.
Partecipazione, organizzazione, condivisione, adattamento, rispetto, solidarietà e collaborazione, sono queste le parole chiave del workshop, l’ architettura per una volta ha abbandonato il suo aspetto tecnico-formale e ha acquisito nuovi significati.

Sono entrata in punta di piedi in quella città, avendo timore di rapportarmi, amalgamarmi con persone con cui raramente ho interagito. Non capivo quale doveva essere il mio ruolo lì dentro, a cosa servivo e cosa potevo fare al meglio per raggiungere un buon risultato scolastico, ma è bastato entrare in quel contenitore di nuove realtà, esigenze, desideri, abitudini e il mio pensiero di colpo è cambiato.
Mi sono rimboccata le maniche e ho cominciato a dare il mio contributo. Per loro. Quel posto in poco tempo mi ha rapita, conquistata. Lavoravamo tutti insieme per uno scopo, una scuola, un’aula gioco, l’unione faceva davvero la forza e la “differenza” tra noi e loro cominciava a scomparire. L’intento era produrre il più possibile, non sprecare, rendere tutto utile per consentire a quei bambini di non giocare più nel fango e per offrire loro uno spazio dove imparare. Un giusto fine, se si pensa a una comunità che, si spera un giorno, possa integrarsi con l’altra città fuori quelle mura. Tuttavia, vivendo quest’esperienza a ritroso, e vedendo quanta abilità hanno queste persone nel vivere, anzi, sopravvivere, mi chiedo: “ Noi studenti eravamo davvero indispensabili lì per costruire quei luoghi? È davvero quello il vero obiettivo che intendevamo e abbiamo raggiunto?” Credo che in quella settimana il traguardo prefissato sia mutato…da costruire a condividere! È questo il ricordo più intenso che quest’esperienza mi lascia, nuovi luoghi e forme di condivisione che si spera abbiano un futuro in quella comunità, che siano un punto di partenza non solo per migliorare i rapporti interpersonali ma anche la loro città e il loro modo di vivere.
Entusiasta di aver avuto la possibilità di “toccare con mano” l’architettura, di aver fatto parte di un processo di appropriazione di nuovi spazi e della trasformazione degli stessi, concludo con una frase tratta da “Le città invisibili” di Italo Calvino che credo riassuma quest’esperienza:
“…d'una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà ad una tua domanda.”

Dentro e fuori (di Martina Pollice)

Ho sentito dire,da una riflessione emersa tra gli studenti,che una delle esigenze del così interessante posto di cui ci siamo curati durante questa settimana, è quella di tirare giù il muro che separa la zona abitata dai rom da quella degli altri abitanti.
Ho sentito,invece,dire da un abitante stesso che i rom hanno come peculiarità caratteriale, a livello individuale,e di conseguenza a livello di massa,quella di una ricerca di "intimità" intesa come autonomia e indipendenza dalle persone che non fanno parte di essi, senza però evitare il contatto e la collaborazione con essi.
Quel muro divisorio è segno distintivo del loro essere,quella postazione all'interno dell'occupazione è il frutto di un insediamento spontaneo che probabilmente non necessita di cambiamento.
Uno studente propone l'abbattimento del muro..ma un abitante non rom,ma che vive la realtà di Metropoliz 24 ore al giorno, ci dice che loro stanno bene cosÏ!
Con questo esempio voglio sottolineare quanto questa esperienza sia riuscita a farmi uscire dalla nostra ottica(occidentale,commercializzata,stereotipata) e a farmi entrare invece all'interno di un punto di vista ogni giorno diverso,contornato dalla conoscenza di modi di essere,vestire,mangiare diversi anche tra di loro.
Bello constatare come davanti a difficoltà ed esigenze siamo stati tutti ugualmente utili e attivi nel rimettere in sesto i due ambienti che avevamo scelto. Ho trovato anche sbagliato l'approccio che all'inizio si stava avendo,parlo dei primissimi momenti, in cui,senza ancora sentire gli abitanti,con gli "occhi da architetto",già sognavamo collocazioni,muri e componenti d'arredo,come se stessimo immaginando la nostra camera.
E' proprio per questo che poi abbiamo dovuto cambiare le nostre posizioni e concentrare l'attenzione su punti fondamentali per la vita lÏ.
Queste realtà sono inserite in un contesto completamente autonomo, quasi una realtà parallela che si può capire solo se la si vive. Mi è capitato di aver dovuto,forzatamente all'inizio, naturalmente alla fine,ricercare soluzioni con un occhio diverso dal mio,e questo è stato sorprendente. Sorprendentemente riuscita è stata l'integrazione di queste diversità e interessante il confronto tra la "realtà esterna" e quella di Metropoliz,che si presenta come un nucleo a sé,in cui ci si può sentire forse più padroni,per le minori dimensioni e per la possibilità di auto-gestire e auto-costruire i proprio spazi.
La mia più grande conquista è stata la possibilità di osservare diversità che dialogano tra loro e che arricchiscono sicuramente chi ne viene a contatto.

Il fardello dell'uomo bianco (di Giorgia Donato)

Ho deciso di prendere in prestito da una poesia di Kipling il titolo della mia “riflessione”; lo scrittore britannico infatti era dell’idea che all’Europa fosse assegnato il compito storico di civilizzare le popolazioni barbare dell’Asia e dell’Africa .La sua poesia era una sorta di propaganda per convincere l’opinione pubblica a sostenere l’imperialismo attraverso l'ideologia della "missione civilizzatrice" che competeva alle nazioni sviluppate e di razza bianca nei confronti dei cosiddetti "selvaggi". (è incredibile quanto certi temi siano tremendamente attuali…)
La domanda però che mi sono posto appena arrivata a Metropoliz è stata se fosse giusto intervenire in maniera così incisiva all’interno di un microsistema che sta nascendo. Certo è stato bello vedere le relazioni che sono sorte tra noi studenti e con gli abitanti di Metropoliz, è stato appagante poter dare loro qualcosa fatto da noi, ma è stato realmente utile?? Forse si, sicuramente lo sarà stato se i semi che abbiamo piantato con il nostro piccolo intervento verranno annaffiati con amore dagli abitanti stessi giorno dopo giorno, lo sarà stato se dal giorno successivo alla nostra partenza le riunioni sono andate avanti e alla sera gli uomini del campo rom hanno proseguito ad incontrarsi dopo il lavoro dandosi appuntamento “al Campidoglio”.
Questo però è un processo che va monitorato nel tempo, per questo trovo giusto portare avanti il progetto, ma questa volta coinvolgendo le persone in un modo diverso. Noi abbiamo mostrato loro la via, ora dovrebbero essere loro a rimboccarsi le maniche, con il supporto e la consulenza di noi “piccoli architetti”, affinché il nostro lavoro non venga interpretato come una settimana di festa e pranzi, ma l’inizio di un processo di crescita e integrazione. Penso che questo scatto in avanti sia indispensabile per loro, e più difficile per noi, affinché non si inneschi nelle due parti una sorta di sussistenza. Faccio un esempio forse banale ma concreto: quando i bambini sono piccoli, vengono imboccati dai genitori, ma ad un certo punto devono prendere la forchetta in mano e capire come usarla; certo era molto più facile per la mamma imboccarlo, insegnargli a mangiare da solo comporta il fatto che dovrà fargli vedere come si fa, dovrà avere pazienza perché ci metterà una vita, dovrà lavare alla fine tutta la cucina, ma avrà la certezza che da quel momento in poi il figlio sarà diventato autonomo!!

La partecipazione come mezzo o come fine.

Una delle prime cose che ci disse il professor Careri prima che ci avviassimo era: “Ricordate, non stiamo andando a fare le elemosina…”. Ecco, forse solo alla fine della settimana ho realmente capito cosa intendesse il professore con queste parole. La mia difficoltà nell’afferrare il concetto che ho recepito solo l’ultimo giorno era data dalla mia voglia di portare a termine un lavoro. Quando sono arrivato a Metropoliz sono rimasto stordito da una situazione più complessa di quella che mi ero cercato di immaginare e i primi giorni tornavo a casa frustrato perché non riuscivo a capire come un nostro intervento potesse aiutare a risolvere problemi che molti occupanti non si erano nemmeno posti. Mi sono sentito dire da più persone che la partecipazione che andavamo cercando non era il mezzo per arrivare a qualcosa ma il fine del nostro workshop. Mi sono chiesto se la partecipazione fosse un lusso che gli occupanti di Metropoliz si potevano permettere abitando in case che non si avvicinano minimamente agli standard a cui sono abituato. Ho pensato, dopo due o tre giorni che potrei definire eufemisticamente “poco produttivi”, che non stessimo dando un buon esempio di partecipazione perché agli occupanti di Metropoliz non serviva una bella idea ma qualcosa di fattibile e che quello che noi stavamo proponendo non lo fosse. Se la partecipazione è il fine deve comunque portare a qualcosa di buono perché, paradossalmente, per essere un fine a cui bisogna ambire deve anche essere il mezzo per arrivare a qualcosa di migliore, o per lo meno equivalente, della non partecipazione… altrimenti che senso ha partecipare? Se ottengo risultati migliori e in tempi più brevi senza consultare gli altri perché dovrei partecipare? In pratica riflettevo sul fatto che la partecipazione come fine si da una bella zappata sui piedi se allo stesso tempo non è anche il mezzo per arrivare a qualcosa di utile, altrimenti rimane solo una bella e impraticabile idea.
Ebbene, dopo tre frustranti giorni di partecipazione come fine ho notato che l’interesse dei metropolizensi (metropolizini?) aumentava. Cresceva la voglia di, appunto, partecipare a creare il loro spazio, di mettere mano e contribuire alla realizzazione di spazi che prima non avevano, per migliorare la qualità degli spazi che avevano a disposizione. Ho capito quello che davo per scontato: la partecipazione ti coinvolge e il tuo contributo rende più tuo lo spazio che stai creando. Forse non sarà la soluzione finale quella a cui siamo arrivati sabato ma si è avviato un processo importante per qualsiasi comunità. La partecipazione come fine è stata il mezzo per arrivare all’idea di uno spazio comune.


Matthew Hart

Quel mondo alla fine del mondo… (di Alessandra Romiti)

Non penso sia possibile esprimere attraverso poche parole ciò che credo di aver fatto mio durante questa esperienza. Nonostante il passare dei giorni, mi rendo conto di essere ancora in preda ad un processo di acquisizione di consapevolezza, che si sta delineando pian piano in me e che sta cercando ordine fra il caos di pensieri ed emozioni che è chiaro che mi abbiano colpita. Quello che ho scritto è un discorso che fa riferimento sia a riflessioni di carattere personale che ad altre di carattere professionale. Ed è su quest’ultime che preferisco e ritengo più consono concentrarmi.
Fin dai momenti del primo approccio con il luogo e la comunità che lo vive, mi sono chiesta come, in così poco tempo, potessimo realizzare qualcosa che avrebbe lasciato a quei bambini e ai loro genitori una nostra traccia. Mi sono resa conto di esser stata ossessionata, almeno inizialmente, dall’ idea che fosse necessario raggiungere un obiettivo che identificavo con un prodotto visibile e tangibile da chiunque, senza capire che invece, la cosa davvero importante per noi, ma soprattutto per loro, fosse mettersi tutti al servizio dell’altro, ognuno con le proprie competenze e con i propri mezzi, uniti da uno scopo comune, per alimentare il senso di condivisione e collaborazione che distingue gli abitanti di Metropoliz da chi li ritiene solo gente che vive ai margini della legalità!
Ed ora, contrariamente ai primi giorni, penso anche che giungere lì digiuni di qualunque tipo di informazione sia stata la scelta migliore che si potesse fare, perché questo ha permesso a ciascuno di noi di prendere coscienza di priorità personali, che è giusto stabilire in base alle proprie reazioni, di fronte ad una realtà che è profondamente diversa da quella che viviamo quotidianamente e da quella che ci propinano i media.
Sarò pure retorica e un po’ idealista ma ora so che nelle nostre braccia e nelle nostre menti è nascosto il potere di demolire il pregiudizio, quello di abbattere gli schemi in cui la società ama rinchiudersi. Possiamo decidere se continuare a crogiolarci nel nostro dolce far niente oppure continuare a dare il nostro contributo affinché questi luoghi abbiano un futuro concreto, il cui significato possiamo già leggere in quegli occhi pieni di idee, entusiasmo e di speranza.

Une bulle dans la ville (di Pauline Gorlin)

Tout d’abord j’aimerais évoquer mon opinion personnel au sujet de ce workshop.
Celui-ci a été pour moi une expérience nouvelle et très enrichissante. Dans mon école en France nous n’avons jamais eu l’occasion de travailler de cette façon. J’ai beaucoup apprécié le fait de travailler directement sur le terrain et d’être actif concrètement dans notre projet, être en contact avec les personnes concernées et connaître leurs envies, leurs souhaits pour produire un projet qui leur conviennent le plus possible. Nous avons pu rencontrer nombreux d’entre eux, connaître leurs histoires et ainsi réaliser un projet entièrement pour eux. J’ai beaucoup aimé cela, car contrairement aux projets que nous avons l’habitude de faire, nous sommes rarement en lien si proche avec les gens concernés. Hors à Metropoliz nous connaissions leurs vraies envies et nous avons pu travailler avec eux.
J’ai beaucoup aimé l’esprit entre tous les étudiants réunis tous ensemble pour un même travail d’équipe.
En arrivant pour la première fois sur le site de Metropoliz, j’ai découvert un lieu fermé, et en quelque sorte hors de la ville. Un monde un peu à part, comme une bulle. En effet entouré de hauts murs, Metropoliz renvoi a un lieu hors du contexte extérieur urbain et dynamique. Mon envie serait principalement d’ouvrir ce lieu vers l’extérieur pour qu’il puisse participer à la ville de Rome. Rendre les habitants plus autonomes sans pour autant clore le site mais au contraire le déployer. Les faire participer véritablement à la vie de Rome et les intégrer d’avantage.
De plus en discutant avec divers habitants, nous avons pu constater que la majeure partie d’entre eux souhaitent s’intégrer et se sociabiliser avec la vie extérieure. J’utilise fréquemment les mots extérieur et intérieur, car cela correspond véritablement à ma représentation de Metropoliz, un espace indépendant de la ville.
En travaillant sur ce site, j’ai découvert un bâtiment très intéressant avec beaucoup de potentiel. Nous avons pu y aménager deux salles de classe, et je pense qu’il pourrait être intéressant de lui donner d’autres fonctions en y aménageant d’autres lieux.
Tels une bibliothèque, une salle informatique avec point internet, des salles d’activités, une salle de sport etc… Des lieux pour les habitants de Metropoliz, mais également pour la population extérieure. L’idée de faire venir d’autres gens, dans un principe d’échange avec les autres. Les habitants de Metropoliz ouvriraient donc leurs portes pour partager leur lieu avec d’autres personnes. Le site viendrait alors apporter à la ville ses propres attributs, pour venir la compléter. Les gens trouveraient à Metropoliz ce qu’ils ne trouvent pas ailleurs. Et cela dans un esprit nouveau, un esprit d’échange avec une population qui est aujourd’hui pas assez intégrée et pour laquelle les gens ont des aprioris divers. En travaillant une semaine à Metropoliz j’ai constaté que les gens étaient très investis et ont beaucoup participé pour la transformation du lieu. Je pense que leur motivation est grande et que l’on peut encore faire beaucoup de belles choses pour transformer cette ancienne usine. Je trouve l’idée d’ouvrir Metropoliz sur l’extérieur très intéressante, mais je n’oublie pas les limites. En effet il ne faut pas mettre en danger les habitants vis à vis des autorités. Mais je souhaiterais que le fait d’ouvrir leur lieu de vie et le rendre attractif pour tous, dissuadent certains opinions à leur égard. De plus l’ancienne usine appartient à un particulier et nous sommes dans l’ignorance d’éventuels projet de réhabilitation de sa part.


Innanzitutto mi piacerebbe dare la mia opinione personale a proposito di questo workshop.
Questo è stato per me un'esperienza nuova che mi ha arricchito. Nella mia scuola in Francia non ho mai avuto l'opportunità di lavorare in questo modo. Ho apprezzato molto il fatto di lavorare direttamente sul campo e di essere concretamente attiva nel progetto, essere a contatto con le persone interessate e conoscere le loro passioni, i loro desideri per produrre un progetto adatto a loro. Abbiamo potuto incontrare molti di questi, conoscere le loro storie e così realizzare interamente un progetto. Tutto questo mi e piaciuto molto, perche contrariamente ai progetti che ho l'abitudine di fare dove raramente si e così vicini alla gente interessata, dentro Metropoliz siamo entrati in contatto con le vere problematiche e le loro esigenze potendo lavorare collaborando insieme.
Mi e piaciuto anche lo spirito del gruppo e l’atmosfera che si e creata tra tutti gli studenti riuniti, tutti insieme per lo stesso obbiettivo.
Arrivando per la prima volta sul sito di Metropoliz, ho scoperto un luogo chiuso, ed in qualche modo fuori dalla città. Un mondo un poco a parte, come una bolla. Cinto dalle altezze dei muri elevati, Metropoliz rinvia ad un luogo fuori dal contesto esterno urbano e dinamico. Il mio sogno sarebbe principalmente di aprire questo luogo verso l'esterno affinché possa partecipare alla vita cittadina di Roma, rendere gli abitanti più autonomi senza per questo chiudere il sito ma al contrario spiegarlo, facendoli partecipare davvero alla vita di Roma e dare loro dei vantaggi.
Inoltre parlando con diversi abitanti, abbiamo potuto constatare che la maggior parte di loro vorrebbero integrarsi e socializzare con la vita esterna. Utilizzo frequentemente le parole esterno ed interno, perché ciò corrisponde veramente alla mia idea di Metropoliz, un spazio indipendente della città.
Lavorando su questo sito, ho scoperto un edificio molto interessante carico di potenziale. Abbiamo potuto pianificare due aule scolastiche, ed io penso che potrebbe essere interessante dare a questo edificio altre funzioni pianificando altri luoghi come una biblioteca, una sala informatica con accesso a internet, delle sale di attività, una sala di sport ecc . L'idea e di far arrivare altre persone, favorendo cosi i rapporti con gli altri. Gli abitanti di Metropoliz aprirebbero le loro porte per dividere il loro luogo con gli altri. Il sito potrebbe portare le sue qualita, per andar a completare la città. Le persone troverebbero in Metropoliz ciò che non trovano altrove. Tutto questo in uno spirito nuovo, uno spirito di scambio con una popolazione che non è oggi abbastanza integrata e per la quale la gente ignora ancora molto.

Collaborazione per una migliore integrazione (di Olivia Dadzie).

Cette expérience auprès des familles roms, m’a donné envie de continuer à travailler sur ce sujet. La discipline architecturale a pour moi une place importante dans ce travail auprès des populations immigrées! Cette collaboration avec les différentes familles roms a été pour moi très constructive, car nous avons pu apporter nos compétences d’architecte et nous avons aussi beaucoup appris sur d’autres méthodes de travail, avec d’autres matériaux et une autre manière de penser différente de la notre. Cette manière de travailler enrichi énormément mes compétences architecturales.
Ce lieu qu’est métropolis, a pour moi un énorme potentiel. Nous pourrions imaginer un centre social pour les différentes familles sans papier ou les réfugiés politiques, afin de les aider à améliorer leurs conditions de vie, et de travailler à leur intégration en Italie. Un lieu qui ne serait pas clandestin et qui leur permettrait d’avoir l’assurance d’une place sûre pour vivre.
Nous pourrions comparer ce lieu aux autres centres sociaux déjà existant en France. Même si en France nous avons des subventions de l’Etat pour créer et gérer ces centres sociaux, nous avons pu nous rendre compte qu’ici, avec très peu de moyen nous pouvons faire beaucoup.
En France nous avons une fédération des centre sociaux qui gère tous les pôles sociaux de France, elle remonte à plus d’un siècle et a été créée pour les populations ouvrières et les aider à se gérer. Pour le cas de métropolis nous pourrions imaginer une association de différents corps de métier afin de travailler avec les familles immigrées, pour mettre en place une vraie qualification à cette usine aujourd’hui désaffectée. Avec un pôle logement, des salles de cours pour les enfants et les adultes, des salles de sport, mais aussi de travail afin qu’ils puissent par exemple exercer leur métier et vendre leur production, il serait aussi possible de créer un grand jardin cultivé ou l’on pourrait vendre la production de celui-ci pour aider à la gestion financière du centre… cela peut paraitre a priori utopique, car toutes ces idées doivent être le fruit d’un travail collectif abouti. Mais grâce aux exemples des autre pays et l’apport de chacun, nous pouvons réussir à créer un centre où les populations roms pourraient s’autogérer et s’intégrer à leur manière à la vie de leur nouveau pays d’accueil. La richesse de cette collaboration serait bénéfique à chacun et pourrait être le début d’un travail national en Italie.



L'esperienza con le famiglie rom, mi ha spinto a continuare a lavorare su questo tema. La disciplina di architettura ha un posto importante per me in questo lavoro con le popolazioni immigrate! Questa collaborazione con le varie famiglie rom è stato molto costruttivo per me, perché abbiamo potuto portare la nostra esperienza di architetto e abbiamo imparato anche su altri metodi di lavoro con altri materiali e un altro modo di pensare dalla nostra. Questo modo di lavorare enormemente arricchito le mie competenze architettoniche.
Questo luogo quella metropoli, ha un potenziale enorme per me. Potremmo immaginare un centro sociale per le famiglie diverse senza carta o rifugiati politici per aiutarli a migliorare le loro condizioni di vita e di inserimento lavorativo in Italia. Un luogo che non è illegale e che sarebbe garantita in un posto sicuro dove vivere.
Potremmo paragonare questo luogo ad altri centri sociali già esistenti in Francia. Anche se in Francia abbiamo sovvenzioni statali per creare e gestire tali centri, siamo stati in grado di riferire qui, con molto poco significa che possiamo fare molto.
In Francia abbiamo una federazione di centro sociale che gestisce tutto il nucleo sociale in Francia, si risale a più di un secolo ed è stato creato per lavorare le persone e aiutarle a gestire. Per il caso di Metropolis si potrebbe immaginare una combinazione di diversi mestieri per lavorare con le famiglie immigrate, per sviluppare una competenza reale in questa fabbrica ormai in disuso. Con aule che ospita un centro per bambini e adulti, centri sportivi, ma anche il lavoro in modo che possano fare il loro lavoro ad esempio e vendere la loro produzione, si creerebbe anche un ampio giardino coltivato oppure potrebbe vendere l'uscita di esso per aiutare il centro finanziario ... questo può sembrare a priori non realistico, perché tutte queste idee devono essere il frutto di uno sforzo collettivo è riuscito. Ma grazie agli esempi di altri paesi e il contributo di ciascuno, si può creare con successo un centro dove le persone potessero governare Roma e integrare nel loro modo di vita del loro paese ospitante. La ricchezza di questa collaborazione a vantaggio di tutti e potrebbe essere l'inizio di un lavoro nazionale in Italia.

Domani, di tanto rumore, non rimarrà che una fotografia (di Flavio Graviglia)

Tendenzialmente l’idea del reportage fotografico viene associata ad un’opera documentaria venendosi così a formulare attraverso la lettura dell’immagine la relazione che intercorre tra la fotografia e la realtà;
fotografo il tentativo di riqualificare una fabbrica occupata per documentare l’opera che si sta compiendo, forte del fatto che quelle immagini potranno essere usate come strumenti comunicativi.

Questo pregiudizio che tende ad assegnare alla fotografia un ruolo di documento oggettivo di ciò che viene rappresentato è prevalentemente falso.
La fotografia non dimostra mai un fatto, si limita a mostrare un avvenimento. Dunque il ruolo che possiamo conferirgli non è certo quello di testimonianza, ma di racconto: fotografia è narrazione.

Se da un lato la realtà non è così come appare, ma come vogliamo raccontarla, dall’altro il testo che l’immagine ci propone dipende esclusivamente dalla persona che lo legge.
Del resto, nessuno potrebbe riuscire a scindere quali sono gli scatti effettivamente reali e quelli che avrei potuto produrre mettendo in posa i soggetti fotografati. Di conseguenza dalla sua lettura non possiamo trovare un significato ontologico dell’evento rappresentato, dobbiamo fermarci alla sua rappresentazione fenomenologica, alle sensazioni che l’immagine ci propone, all’epifania dei sentimenti che ci vengono trasmessi.

Paradossalmente, dal punto di vista fotografico, non ci interessa se all’interno di Metropoliz si è lavorato bene o se, di contro, si è sbagliata ogni cosa; ci importa non la qualità del lavoro ma il gesto che il lavoro ha prodotto e, dunque, l’emozione che riusciamo a far suscitare allo spettatore a cui la fotografia è mostrata.
L’immagine diviene un veicolo puramente comunicativo, dove la comunicazione migliore non va ricercata nella verità, ma in uno strumento che allude ad una verità, al fine di trascinare il lettore verso quei sentimenti che tentiamo di rappresentare.

Il suo ruolo è così d’impatto, puramente estetico, superficialmente cinico.
Finendo per cercare nei contesti sociali più degradati la ricerca della lacrima, l’umanità in un sorriso, l’intensità di un grido.
Gesti, visi, sguardi, si perderanno nella nostra memoria. Mutata la fabbrica, nessuna cosa avrà più luogo, delle case oggi abitate sino agli spazi con fatica riqualificati, delle amicizie nate e delle realtà scoperte; domani, di tanto rumore, altro non rimarrà che una fotografia.

Un esperienza che ti cambia la vita… (di Giacomo Maizza)

Quando mi sono iscritto a questo workshop, non avevo la piu pallida idea di cosi si trattasse, da premettere che avevo sempre sentito parlare di occupazioni, di rom e, cose del genere ma, non avevo mai avuto realmente l’occasione di toccare con mano queste realtà, per fortuna (pensavo) ma, mi sono dovuto ricredere. Quando mi hanno detto che saremmo andati in un luogo del genere, mi sono passate per la mentre tremila cose, non di certo belle, scaturite dal fatto che, purtroppo, chi è al di fuori da determinate realtà, si viene a creare un immagine distorta di questi posti, scaturita da una proiezione di ciò che gli viene raccontato e che non coincide minimamente con la realtà. In questa settimana quindi, contrariamente alle mie aspettative ho avuto la grande fortuna di riscoprire una serie di valori che credevo fossero ormai totalmente persi ed è stato un fantastico susseguirsi di scoperte ed emozioni sin da quando ho messo piede all’interno della fabbrica..Come se dopo quel cancello, esistesse tutto un altro mondo..vedere tutte queste persone, di etnie e culture diverse che collaborano tra di loro per realizzare qualcosa che non serve solo ad ogni singola etnia ma, a tutta la loro comunita..vedere come riescono a realizzare spazi, arredi, pur non avendo niente, con quello che riescono a trovare, con quello che la fabbrica gli riesce a donare..vedere come riescono a sfruttare al massimo ogni singola cosa..vedere e sentire questa grandissima voglia che hanno, questa voglia di fare e di dimostrare prima a loro stessi e poi a tutti che loro esistono, che loro sanno fare, sanno realizzare, che loro vivono e sono parte molto importante di questa città che molto spesso non sa nemmeno della loro esitenza o che, ancora piu spesso con indifferenza li guarda con un cattivo occhio e gli attribuisce la sua rovina..è stato bellissimo vedere il modo meraviglioso con cui ci hanno accolto e ci hanno reso partecipi della loro vita sin dal primo momento in cui siamo arrivati, raccontandoci le loro storie, i loro progetti, i loro sogni perché anche loro come qualsiasi persona al mondo della loro età, hanno dei sogni e, pur vivendo tra mille difficoltà e non avendo molto, non perdono mai la speranza e la volontà di realizzarli e di avere un futuro migliore per loro e per i loro figli..Sono entrato in questa realtà con scetticismo e con molti pregiudizi, come uno studente che doveva andare la, svolgere il proprio lavoro magari con la presunzione di insegnare a loro qualcosa ed andarsene con un voto, nella più totale indifferenza, come spesso la società attuale ci impone di fare, invece mi sono reso conto che sono entrato totalmente vuoto in questa realtà e ne sono uscito pieno di tantissimi valori che questa gente con la loro semplicità è riuscita e donarmi..sono andato la con la convinzione di dare qualcosa a loro e invece sono loro che mi hanno dato qualcosa a me..e mi piacerebbe davvero aver l’opportunità per continuare questa esperienza in modo tale da poter costruire tutti insieme qualcosa di concreto e duraturo,magari con altri che come me potranno scoprire quanto sia bello ricredersi su determinate cose e realizzare cosi un sogno…

Micropoliz (di Esther Athanase)

Metropoliz. Si j'avais pensé un jour faire un tel projet, j'aurais certainement sous-estimé l'impact de celui-ci, tant au niveau de ses habitants que de ce que cela m'a apporté. Etant pour la première fois confrontée à ce genre de projet je n'ai pas assez de matière pour comparer et critiquer de façon approfondie cette expérience mais je peux tout de même faire part de mes simples observations et de la façon dont j'aimerais les développer. L'élément le plus intéressant qui m'ait été donné de constater sur place est cet espèce de microcosme que forme Metropoliz, et à plus grande échelle, celui que forment tous les camps de Rom. Leur connexions, leur hiérarchie, leur façon de vivre ensemble. Il viennent tous d'horizons, de pays différents, n'ont pas la même culture, la même religion, mais ils arrivent tous à vivre ensemble, travailler ensemble, contrairement à ce qui se passe extra-muros, car ils sont tous réunis par le même problème. Certes, chaque « communauté » s'est en quelque sorte regroupée – certainement dans un souci de langage, pour ne pas se sentir seule et éviter le « mal du pays » - mais nous avons pu constater durant ce workshop qu'ils n'avaient aucun problème pour allier leur force et s'entendre dans l'effort. Ils m'ont donné l'impression d'être une population à part entière et d'appartenir au même microcosme. De plus, le fait de vivre cachés à l'intérieur des murs renforce cette idée de « ville dans la ville ».
A plus grande échelle, j'ai été impressionnée de voir comment « fonctionnaient » les différents camps entre eux. On ne se doute pas qu'il y a un tel réseau à l'intérieur même d'une ville telle que Rome.
Et étant donné leur situation, du point de vue social et civil, il y a comme une mise à l'écart de la population de Metropoliz par les habitants, appelons-les en situation régulière, qui les pousse à se retrancher entre eux et qui les exclut de la vie sociale romaine proprement dite. Il se forme alors une sorte d'esprit de communauté, de solidarité entre les différents Rom qui consolide le fait qu'ils font partie d'une unité autre que celle que l'on trouve à l'extérieur de leurs murs. Et c'est donc de leur situation, du jugement des personnes extérieures et de leur localisation que cet effet de microcosme prend forme.
Je n'ai pas vraiment d'avis en ce qui concerne le fait de savoir qui entre l'intra-muros et l'extra-muros possède le meilleur modèle de vie en communauté et je pense qu'il me faudrait beaucoup plus qu'une semaine de Workshop pour le déterminer, mais si je dois me poser une question après cette simple observation, c'est comment, une fois leur situation régularisée et leurs problèmes financiers réglés, les Rom vont-ils s'adapter à cette toute autre façon de vivre qui les entoure?



Metropoliz. Se avessi pensato un giorno fare un tale progetto, avrei sottovalutato certamente l'impatto di questo, tanto al livello dei suoi abitanti che ciò che ciò mi ha portato. Essendo per la prima volta confrontata a questo genere di progetto non ho abbastanza materia per paragonare e criticare in modo approfondita questa esperienza ma posso partecipare però le mie semplici osservazioni e del modo di cui amerei svilupparli. L'elemento più interessante che mi sia stato dato di constatare è sul posto questa specie di microcosmo che forma Metropoliz, ed a più grande scala, quello che formano tutti i campi di Rom. Le loro connessioni, la loro gerarchia, il loro modo di vivere insieme. Viene tutti di orizzonti, di paesi differenti, non hanno la stessa cultura, la stessa religione, ma arrivano tutti a vivere insieme, lavorare insieme, contrariamente a ciò che accade extra-muros, perché sono riuniti tutti per lo stesso problema. Ogni "comunità" si è raggruppato certo, in qualche modo - certamente in una preoccupazione di linguaggio, per non sentirsi sola ed evitare il " nostalgia di casa ", - ma abbiamo potuto constatare durante questo workshop che non avevano nessuno problema per alleare la loro forza ed intendersi nello sforzo. Mi hanno dato l'impressione di essere a pieno titolo una popolazione e di appartenere allo stesso microcosmo. Di più, il fatto di vivere nascosti dentro ai muri rinforzi questa idea di "città nella città".
A più grande scala, sono stata impressionata di vedere come "funzionavano" i differenti campi tra essi. Non sospetta che c'è all'interno una tale rete stessa di una città come Roma.
E considerando la loro situazione, del punto di vista sociale e civile, c'è come un collocamento lontano dalla popolazione di Metropoliz per gli abitanti, chiamiamoli in situazione regolare che li spinge a trincerarsi tra essi e che li esclude della vita sociale romana propriamente detta.
Si forma allora un tipo di spirito di comunità, di solidarietà tra i differenti Rom che consolidano il fatto che fanno parte di un'unità altro che quella che si trova all'esterno dei loro muri. E è dunque della loro situazione, del giudizio delle persone esterne e della loro localizzazione che questo effetto di microcosmo prende forma.
Non ho veramente parere in ciò che riguarda il fatto di sapere chi tra l'intra-muros e gli extra-muros possiedo il migliore modello di vita in comunità ed io penso che mi occorrerebbe molto più che una settimana Workshop per determinarlo, ma se devo porsimi una domanda dopo questa semplice osservazione, questo è come, una volta la loro situazione regolarizzata ed i loro problemi finanziari regolati, i Rom vanno essi adattarsi a questo tutto altro modo di vivere chi li cinge?

Progettisti della transitorietà (di Raffaele Trabace)

L’immersione nella complessa realtà di Metropoliz ha suscitato in me immediata curiosità e volontà di conoscere una realtà per me nuova.
Metropoliz mi è apparso un contenitore di diversi modi di vivere, dalle innumerevoli possibilità, in cui ogni occupante ha gradualmente definito il proprio spazio privato con i mezzi che aveva a disposizione.
L’osservazione diretta mi ha riportato alla mente alcune riflessioni che l’architetto olandese John Habraken faceva a proposito delle “support structures”, strutture di supporto progettate, con dotazioni minime, dagli architetti e nelle quali gli abitanti definivano il loro spazio abitativo.
Ho associato Metropoliz all’idea di una struttura di supporto, i cui spazi possono cambiare pelle innumerevoli volte, a seconda di chi li occupa e degli usi a cui vengono destinati.
La struttura di supporto è qui rappresentata da capannoni dismessi ed edifici abbandonati, strutture largamente diffuse nelle nostre città, che rivivono in una situazione estrema come quella che coinvolge chi una casa “normale” non la possiede.
Il paragone può sembrare azzardato, ma quello che mi colpisce è che Metropoliz mi appare una situazione sicuramente più democratica dal punto di vista dell’architettura partecipata e del coinvolgimento diretto dell’abitante nella definizione del proprio spazio abitativo, tenendo presente il contesto particolare in cui ogni abitante è coinvolto.
Mentre nelle ipotesi teoriche di Habraken l’architetto riveste un ruolo di “mediatore” tra costruttori/investitori e cittadini, nell’esperienza Metropoliz il nostro ruolo mi è sembrato piuttosto quello di progettisti della transitorietà.
Nel senso che siamo stati coinvolti dapprima nella colonizzazione di spazi inutilizzati del complesso e successivamente nell’allestimento di spazi quantomeno vivibili per gli occupanti.
Inizialmente mi risultava difficile accettare l’idea di “progettare” spazi che fisicamente sarebbero potuti durare un anno, un mese se non qualche giorno, ma poi ne ho gradualmente capito le potenzialità.
L’intervento è da valutare in un’ottica più ampia, che va dall’appropriazione di un posto alla sua graduale trasformazione in uno spazio.
Gli “spazi comuni” da noi realizzati in realtà saranno in futuro lo specchio dell’integrazione tra gli abitanti e delle loro necessità che di volta in volta potranno cambiare.
L’aver partecipato alla progettazione di una “possibilità” credo ci abbia inseriti nel complesso processo di integrazione tra gli occupanti che questi spazi potranno rappresentare.

THE FOREFINGER, il dito indice (di Laura Criscuolo)

Quattrocento parole. Un paio di migliaia di lettere. Poco, forse.
O forse no.
Molto bene. Cerchiamo di farla lealmente questa cosa. Solo io e un virtuale foglio bianco, sul quale vorrei dare forma al principale interrogativo che mi è rimasto.
Dove andrà a finire quello che abbiamo fatto?
Non ho risposte. Solo un pensiero. Non sarà quando torneremo li tra un mese, tra un anno, tra dieci e troveremo (chissà) ancora al suo posto la libreria dipinta di azzurro e giallo che potremo dire di non aver fallito.
Per quanto mi riguarda, non è quando le cose rimangono aI loro posto che si ottiene un risultato. Il successo di questa piccola “missione” sta probabilmente nell’atto dell’aver mischiato, smosso, spostato, incuriosito. Menti, coscienze, pensieri. Vite.
Al di là dei piccoli problemi organizzativi che ci sono stati (riguardanti materiali, divisione dei ruoli, tempistiche, budget, scelte progettuali) e che, probabilmente, se ci sarà un secondo round potranno, e dovranno, essere meglio gestiti a monte, credo che tutti noi con i nostri obbiettivi, in una settimana, ci siamo uniti e trasformati in un enorme forefinger che ha premuto con forza sul pulsante “start” di una macchina dimenticata da tempo, ma ancora funzionante. Con questo voglio sottolineare l’importanza di aver dato il via ad un progetto, seppur di modeste dimensioni, che se messo sui binari giusti potrebbe davvero sfociare in qualcosa di moto interessante.
La differenza con altre precedenti esperienze di cui sono stata protagonista o semplicemente spettatrice, sta nell’aver cercato una contrapposizione alla chiusura che di solito si verifica in questi casi. Il rischio, quando si opera in questi campi, è di creare una sorta di “setta” che pretende di gestire il tutto, il prima e il dopo, senza rendersi conto che l’apertura verso l’esterno (nel nostro caso verso la città, i cittadini, le istituzioni) è a dir poco fondamentale se si vuole che il processo non venga interrotto.
Che Metropoliz e i suoi abitanti diventino quindi parte di un ingranaggio più complesso. Ovviamente, non ne vedo ancora l’esatta natura finale. Ma vedo delineato il processo di trasformazione per giungervi. Architettonico, magari. Certo, io sono di parte. Ma ho provato l’indescrivibile piacere del “costruire con materiale umano”. Ho toccato con mano quanto questo tipo di approccio possa dare grandi risultati. Si è venuta a creare una curiosa e forte interdisciplinarietà, fondamentale per poter continuare al meglio.
Magari con una migliore organizzazione, ma sicuramente con lo stesso spirito.

Metropoliz: spazio ed evento (di Clara Dionisi)

La prima impressione che ho avuto di Metropoliz è stata l’inospitalità di questo luogo verso l’accoglienza di un programma abitativo sebbene l’emergenza di molte persone di trovare una loro dimora instauri una tensione tra lo spazio e gli abitanti, che si esprime nel significato di luogo, confronto tra spazio ed azioni. “Sequenze spaziali ed eventi possono entrare in relazione in 3 diverse modalità differenti: indifferenza, conflitto, reciprocità “. Lo spazio ha una propria logica gli eventi ne seguono un'altra, ma gli spazi vengono qualificati dalle azioni tanto quanto le azioni vengono qualificate dagli spazi, non sempre un evento prende avvio da uno spazio predisposto ad esso ma può invece farvi ci largo liberando movimenti creativi che reinterpretano una struttura in nuovi significati, cosicchè collaborare insieme per pensare, sviluppare realizzare un’idea di abitare all’interno di una fabbrica dismessa vuol dire innescare un processo che trasforma il rapporto fra le azioni e lo spazio dal conflittuale al reciproco portando con se un forte senso di appartenenza.
La città moderna è il luogo che mette a confronto spazi ed azioni, un conflitto tra sequenza ed eventi ove ognuna trasgredisce la logica interna dell’altra e nel fa ciò si manifestano significazioni multiple che consentono il susseguirsi nel tempo di luoghi e relazioni differenti in un unico spazio architettonico.
Esiste un momento in cui lo spazio prende forma in base alla previsione di un programma, ma questo stesso spazio in futuro potrebbe accogliere forme diverse di appropriazione, eventi, funzioni, programmi non previsti al momento del concepimento. È stato per molto tempo considerato naturale che ogni specifica attività chiedesse domande specifiche agli spazi nel quale esse sono destinate ad aver luogo ma probabilmente una così stringente specificità non è più concepibile nella città moderna, una scansione metrica spaziale può accogliere differenti modalità di appropriazioni territoriali, poiché nelle misure e distanze che governano le relazioni tra le parti l’uomo può trovare libertà nell’ interpretazione di tali limiti.
La struttura porta memoria dell’evento precedente e come un paesaggio non più naturale ma antropomorfico dove i susseguenti cicli lasciano tracce che ne modificano l’identità stessa evitando che all’interno della città si verifichi una frattura con la formazione di spazi residuali.
Poiché oltre lo scopo per cui una forma è stata progettata essa ha un valore aggiunto e potenziale che è quella di accogliere nuovi significati e relazioni tra gli abitanti che hanno bisogno di uno spazio che le accolga per manifestarsi. E quando ci siamo stati noi abbiamo assistito come frutto di un lavoro condiviso di trasformazione il manifestarsi di nuove possibilità di abitare.

Le emozioni costruiscono (di Sara Di Rosa)



Dalla realtà universitaria e dalla quotidianità delle nostre vite ci siamo ritrovati a confronto con una realtà parallela , che vive nella nostra città e che prima potevamo solo immaginare.
Un luogo che nella sua storia ha visto succedersi molte esperienze … dalla fabbrica Fiorucci , all’abbandono , al recente insediamento di persone che non avevano un posto dove stare , METROPOLIZ.
Ci siamo infiltrati come estranei e la cosa più forte è stata sicuramente il contrasto tra la precarietà del posto e al tempo stesso la ricerca di identità che le parti abitate esprimevano.
Il primo giorno eravamo incerti su quello che potevamo fare , quanto saremmo riusciti ad avvicinarci a quel mondo così lontano.
In un fluire naturale e inaspettato di interazioni, percezioni , circostanze l’ingranaggio ha cominciato a muoversi , per diventare ogni giorno più ricco di emozioni e produttivo.
I processi innescati nei rapporti umani , di cui penso i bambini siano molto serviti da legante , hanno contribuito al raggiungimento di una concretezza materiale.
La partecipazione è stato l’elemento fondamentale per la riuscita degli intenti.
Lo scambio è stato intenso e reciproco , si è costruito insieme.
Si sono costruiti legami ,banchi ,speranze, aule ,giochi e sorrisi.
Non si stava solo consegnando un prodotto come di solito fa l’architetto con un committente. Il prodotto è stato il fine di qualcosa di più ampio , come me che in questo momento sto cercando le parole per esprimere in un discorso un qualcosa di molto più complesso , collaborando a metropoliz si sono cercati i mezzi per avere un risultato che significa molto di più.
L’appropriazione partecipata di spazi per un uso comune ,in un luogo dove sono forti le differenze culturali ,ha evidenziato il bisogno collettivo di riconoscersi.
Quello che prima era uno spazio vuoto , privo di vita , ora è uno spazio animato , forse non perfetto dato che si potrebbe fare molto di più , ma sicuramente abitato da un calore che prima non c’era.
Con le mani sporche di intonaco , vernice , pennarelli , grandi e piccoli hanno contribuito a dare forma ai loro sogni. Oggetti materiali che trapelano ricordi e speranze future.
Un percorso di vita che non può rimanere fine a se stessa e che mi ha insegnato come con poco si può fare tanto se c’è la volontà e la complicità e se si è motivati. Non posso infine non elogiare i bambini ribadendo che senza di loro, senza la loro positività e capacità di dare forza ed energia quest’esperienza non sarebbe stata per me la stessa.

Roma ha bisogno di Metropoliz (di Alessandro Toti)

la città è un organismo per sua natura in divenire.

tuttavia oggi questo potenziale di trasformazione è tradito da un'espansione odiosa, lontana dalle richieste dei cittadini di accessibilità, fisica ed economica, e vivibilità. il modello è sempre lo stesso: la distruzione di nuove porzioni di agro romano, la creazione di piccole o grandi enclaves, dove la varietà architettonica ma soprattutto socio-culturale è annullata.

metropoliz offre un altro modello, fondato su 3 principi: la città si ricicla, la città si autocostruisce, la città si condivide.

tuttavia questo modello non è facile da portare avanti perchè si scontra con difficoltà spaziali, temporali, ma soprattutto culturali: è il pregiudizio della nostra società verso esperienze come queste, verso la possibilità dell'altro nella nostra città, altro come luogo, come persona o come sistema, ad ostacolare l'accettazione delle tante metropolis nella roma consolidata: non è alemanno a dover entrare a metropoliz, ma tor sapienza, roma, noi tutti.

il workshop va esattamente in queste direzione: rendere noi studenti da una parte consapevoli di questo processo di appropriazione di spazi e dall'altro partecipi della trasformazione e dell'apertura degli stessi spazi.

ma forse il lascito più importante di questo workshop può essere la consapevolezza che l'abitare contemporaneo sia un'idea nuova, qualcosa che più nello spazio si radica nel tempo, nella velocità di appropriazione e probabilmente, un domani, di abbandono.

il vivere per una settimana in quei luoghi ci ha portato a capire quanto il trasformare una fabbrica dismessa in abitazioni e spazi pubblici non sia una pratica centennale ma piuttosto un'azione quotidiana, legata a gesti domestici, pulire per terra, montare una luce, costruire un tavolo.

l'abitare ritorna al suo significato etimologico indicato da heidegger: non l'occupare un luogo ma il prendersene cura, il trascorrervi il proprio tempo, il caratterizzarlo con la propria individualità.

l'abitare non si compra più da caltagirone, ma si costruisce al metropolis.

metropoliz non è un esperimento riuscito ma un banco di prova, in cui tutti siamo coinvolti. può andare bene o andare male: ma il risultato coinvolge tutti perchè metropoliz non è (solo) il ghetto di poveri emarginati ma l'estremizzazione delle condizioni e delle possibilità di molti cittadini della società attuale, studenti, lavoratori, famiglie, poco o non rappresentati e costretti a conquistarsi e difendersi i propri spazi.

Esiste un progetto senza avere fermi i fini (di Francesco Cusani)

Confrontandomi con questa nuova esperienza mi sono subito reso conto di come la curiosità e l’interesse con i quali mi aveva colpito si stavano trasformando in confusione.
Se il primo impatto con il luogo fu “drammatico”, poichè niente appariva come era stato descritto, o quantomeno, come me lo ero inizialmente immaginato, da una parte sentivo sia una grandissima voglia di dedicarmi fisicamente a Metropoliz, che una consapevolezza delle difficoltà che si legano ad operare in un contesto come questo.
Mi domandai, così, se fosse possibile avere un progetto senza avere fermi i fini.
In cuor mio la risposta apparve subito sincera, ma ora che ho avuto la possibilità di far sedimentare le sensazioni e le emozioni non ho paura a rispondere che tutto ciò è possibile.
Credo che se i fini sono variabili, perché si adattano continuamente alle circostanze ed alle situazioni, il “viaggio” diventa molto più interessante ed efficace ai fini di una nostra – riferendomi a tutte quelle persone alle quali mi sono affiancato in questi giorni - crescita personale. I fini devono essere indirizzi che segnano la strada da percorrere con l’intesa che può darsi che il tracciato cambi perché cambiano le circostanze che si attraversano. Il percorso diventa quindi tortuoso, oscillante, e nel caso capitasse di sbagliare bisogna essere capaci di ammetterlo e di tornare indietro per riprendere la strada giusta.
Ciò che è importante non è quindi il risultato ma il percorso che si compie per cercare di raggiungerlo, accogliendo tutti gli apporti positivi che durante il viaggio s’incontrano, ponendosi di fronte agli ostacoli con spirito inclusivo: il processo è il vero scopo!
Non la bellezza quanto la tanto ricercata “gloria” rappresentano quello che più di tutto conta, e che più di tutto dobbiamo desiderare, ma il processo che le produce.
Perciò bisogna dare importanza a tutti i punti di vista possibili (senza prestabilire che un punto è migliore di un altro) come bisogna compiere diversi tentativi, prove e verifiche, al fine di raggiungere la nostra meta, mettendo in evidenza la situazione con la quale ci confrontiamo, facendo emergere i suoi squilibri, così da permetterci di capire come e fino a che punto può cambiare senza snaturarsi, anche in modo da raggiungerne di nuovi.
La CONFUSIONE è proprio la condizione da cui secondo me bisogna partire: una condizione fatta di tanti stati d’animo contraddittori fra loro. Serenità e tensione, calma ed energia, lentezza ma anche rapidità.

La promiscuità sociale all'interno della comunità di Metropoliz (di Alliette Couturier)

All'interno della comunità Metropoliz, abbiamo osservato una certa eterogeneità. Si tratta di una eterogeneità multi-livello:
⁃ frammentazione nel modo di occupare il posto. Gli abitanti sono raggruppati in base al paese di origine.
⁃ Una promiscuità sociale. Gli abitanti sono cittadini e perciò cultura diversa.
⁃ Vari motivi che hanno portato queste persone a stabilirsi qui.

La ragione principale di questa frammentazione è, a mio parere, dovuto al fatto che queste persone provengono da diversi paesi (Romania, Perù, Marocco, Eritrea, Italia). Hanno quindi una lingua, una cultura diversa. Lorsque ces personnes sont arrivés en Italie, ils ne parlaient donc pas forcément italien. La barriera linguistica è ovviamente un handicap. Naturalmente, le persone di un paese si sono riuniti. Se confronto questo con le mie esperienze come studente Erasmus, è vero che il contatto con persone che non conoscono la lingua a volte è difficile. Forse questo è solo prima di me, ma è quello che ho provato quando siamo arrivati a Metropoliz.

Il secondo motivo di questa frammentazione, penso, a causa del fatto che quando si arriva in un paese straniero, tutto è nuovo, non tutti vivono nello stesso modo e non hanno gli stessi riferimenti. Come ha anche detto Tariq, un residente di Metropoliz marocchino, "ognuno ha una tendenza naturale a formare la propria comunità, perché siamo molto diversi". E 'quindi comprensibile che la gente di un paese saranno raggruppati insieme. Presumibilmente, per rassicurare e di aggrapparsi a qualcosa di familiare.

Inoltre, durante questa settimana del workshop, abbiamo lavorato tutti insieme: studenti, docenti, residenti Metropoliz. Abbiamo formato un gruppo unico in un unico obiettivo: costruire qualcosa insieme e imparare gli uni dagli altri. Trovo che il mix sociale è qualcosa di molto gratificante. Imparare nuove culture, altri stili di vita e di imparare una lingua straniera per comunicare con gli altri ci permette di evolvere. workshop di questa settimana sarà permesso, per esempio, ha trascorso una settimana molto gratificante (per incontrare persone di diversi paesi e culture, lavorando con loro e parlare molto italiano !!!). Penso che questa settimana ha anche permesso di varie comunità Metropoliz a conoscere un po 'di più, perché come ho detto, abbiamo lavorato tutti insieme e hanno contribuito a costruire due aree comuni in cui tutti i residenti possono raccogliere. Questi spazi saranno molto utili per il futuro della Metropoliz.

venerdì 19 novembre 2010

Politically correct

E finalmente un’esperienza nuova che ci obbliga ad uscire dalle aule per andarci a scontrare con la realtà, la realtà dura e cruda di un gruppo di persone a cui è stato vietato un diritto innegabile: il diritto di avere una casa. Una necessità non solo fisica ma un luogo dove trovare riparo, dove formare una famiglia, dove riconoscersi e sviluppare una propria identità.

Sono arrivata a Metropoliz e mai mi sarei aspettata di trovare un mondo così multiforme: un miscuglio di etnie, lingue e costumi, assortiti dietro le mura di quella fabbrica abbandonata. Lì c’è un altro mondo nascosto, non percepibile dall’esterno, che vive parallelo al resto del quartiere senza purtroppo mai incontrarlo, e per quanto splendido possa essere è intrinseco di problemi e fragilità. Sono entrata in punta di piedi, con il timore di essere un elemento scomodo, infastidita da persone che pensavano anche solo di poter dare un contributo in una situazione così complicata, basata su equilibri delicatissimi. Le proposte che ci venivano fatte mi sembravano inutili: Cosa se ne fa un genitore di un’aula gioco per il proprio figlio se non può nemmeno assicurargli una doccia calda? Mi sembrava di imporre la nostra presenza e mi chiedevo perché dovessero accettare una simile invasione nel loro territorio. Ma loro ci hanno aperto le porte delle loro case, ci hanno mostrato come vivono e con quanto amore, ma soprattutto con quanta dignità, si prendono cura di quei piccoli spazi; e allora ci siamo lasciati guidare e abbiamo messo a disposizione noi stessi, estranei in quel mondo che non conoscevamo. Ho visto crescere in noi il desiderio di renderci utili, la voglia di fare e la necessità di fare; ho visto persone diventare una squadra e mani che da dieci diventavano cento e poi ancora di più; ho visto la voglia spasmodica di portare, a tutti i costi, a termine un lavoro che andava oltre le nostre aspettative, e gli abitanti di Metropoliz collaborare con noi verso un progetto comune.

Questa settimana forse abbiamo arricchito e dato un significato nuovo al nostro mestiere, siamo entrati in un mondo fatto non solo di misure, forme e materiali, ma qualcosa di più complesso che porta le persone a collaborare tra loro, a creare spazi e a plasmare luoghi comuni con la voglia di sentirli anche un po’ propri.

A me è bastato vedere giocare i bambini all’interno di questa nuova realtà, e la gratitudine negli occhi degli abitanti per capire che questa esperienza è stata un successo.

Marta Palmieri

Metropoliz: verso una nuova Babele (di Alessandra Schmid)

Un muro alto con una scritta rossa: “Reddito e casa per tutti”; al di sopra sagome di edifici in mattoni, memorie di ciminiere e rumori di un tempo che fu.
E' Metropoliz, la città occupata, “casa” per un centinaio di persone approdate qui da più o meno lontano, ma comunque dopo un lungo viaggio.
Il complesso di Metropoliz si articola entro le sue mura come una vera e propria città nella città.
Una città delle persone che rinasce in un'abbandonata e fatiscente città-fabbrica modificandone radicalmente il significato e la spazialità.
La diversificazione degli spazi, la gerarchia degli edifici, le strade interne ed esterne, la piazza d'ingresso, le relazioni sociali sono caratteri propri della condizione urbana.
Ma qui è il fattore tempo ad essere sconvolto. Rispetto al normale tempo delle trasformazioni nella città, a Metropoliz lo spazio cambia continuamente in un' “architettura istantanea” dove ad ogni gesto degli abitanti-colonizzatori corrisponde una trasformazione spaziale.
Come nella metafora della torre di Babele costruzione, distruzione, trasformazione si confondono all'interno di uno spazio tanto reale quanto simbolico nel quale uomini di culture diverse lavorano come un unico popolo, dando vita giorno dopo giorno ad una lingua comune.
Uno spazio in divenire che, nonostante la precarietà e l'incertezza, è reso forte dalla sua stessa potenzialità di città multiculturale.
L'esistenza di Babele non può però prescindere dal confronto con la metropoli. Come potrà l'una non restare esclusa o non essere sopraffatta dall'altra?
Barriere fisiche e non solo segnano il confine tra Metropoliz e l'esterno.
Al Cairo ho avuto modo di visitare la “città dei morti”, ex cimitero abbandonato che ospita oggi migliaia di persone insediate nelle antiche tombe. Mentre all'interno le condizioni di vita degli abitanti migliorano lentamente grazie all'attenzione internazionale, dall'esterno l'area viene avvertita come un ghetto ed i suoi abitanti ignorati dal resto della popolazione. Solo uno scambio sempre maggiore con la società civile cairota potrà far superare la ghettizzazione.
A Metropoliz la comunità è disposta ad aprire i cancelli e collaborare con chi voglia aiutare o partecipare. Collaborare con la società civile significa anzitutto migliorare le condizioni abitative di chi Metropoliz la vive quotidianamente ed inoltre offrire nuovi spazi di incontro e attività socioculturali alla città.
Eppure anche l'apertura all'esterno se eccessiva può essere rischiosa. Lo dimostra il caso del centro sociale Tacheles a Berlino. L' ex edificio occupato ospita oggi oltre ad alcuni artisti varie attività commerciali ed è una meta turistica descritta sulle lonely planet; il mercato sembra qui aver preso il sopravvento.
Metropoliz è una sfida che si continuerà a costruire passo dopo passo.
Ma se si guarda ai risultati ottenuti dagli abitanti in appena un anno, se pensiamo a quanto abbiamo realizzato ed imparato in appena una settimana, come non credere in questa utopia, come non sperare nella crescita della città meticcia, una nuova Babele, di tutti







« Tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole. Emigrando dall'oriente gli uomini capitarono in una pianura nel paese di Sennaar e vi si stabilirono. Si dissero l'un l'altro: "Venite, facciamoci mattoni e cuociamoli al fuoco". Il mattone servì loro da pietra e il bitume da cemento. Poi dissero: "Venite, costruiamoci una città e una torre, la cui cima tocchi il cielo e facciamoci un nome, per non disperderci su tutta la terra". Ma il Signore scese a vedere la città e la torre che gli uomini stavano costruendo. Il Signore disse: "Ecco, essi sono un solo popolo e hanno tutti una lingua sola; questo è l'inizio della loro opera e ora quanto avranno in progetto di fare non sarà loro impossibile. Scendiamo dunque e confondiamo la loro lingua, perché non comprendano più l'uno la lingua dell'altro". Il Signore li disperse di là su tutta la terra ed essi cessarono di costruire la città. Per questo la si chiamò Babele, perché là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra. »

( dalla Bibbia, Genesi 11, 1-9)



Ricordare, raccontare, tramandare.

(di Stefania De Simone)


In qualsiasi tipo di esperienza ci si trova sempre davanti alla necessità di dover raccontare il lavoro che si è svolto, il filo conduttore degli eventi. Uno strumento intuitivo e di facile trasmissione è quello del blog. Questo ci permette di raccontare, come in un diario, gli obiettivi, le trasformazioni, i risultati, nonché provare a comunicare le relazioni che si creano tra i soggetti partecipanti a tale esperienza.

Il blog consente di utilizzare diversi tramiti per raccontare: possiamo avere contributi attraverso filmati, foto e testi. Ciascuno di questi strumenti racconta la realtà vissuta con occhi diversi. Le parole sono quasi sempre più chiare, dirette, lasciano meno spazio alla percezione individuale e, al pari di un filmato, possono narrare un’esperienza, incuriosire il prossimo. Le foto immortalano un istante, lo imprimono negli occhi, sono i nostri ricordi, sono frazioni di tempo che colpiscono ed emozionano.

Il blog è fatto innanzitutto per essere divulgato ed i contributi devono essere scelti secondo questo fine. Selezionare un contributo per me ha significato cercare di capire lo spazio, l’interlocutore, la situazione e cercare di descriverli. Gli utenti del blog hanno guidato la sua formazione, sia nella scelta del supporto che in quella dei contenuti. Ma questi contenuti sono appunto filtrati e formano l’idea di Metropoliz in chi, non essendoci mai stato, ne viene a conoscenza per la prima volta attraverso questo blog.

Ma questo blog non è destinato solo a coloro che vengono a contatto con Metropoliz consultandolo, ma anche e soprattutto a noi, che attraverso la nostra esperienza lì abbiamo contribuito alla sua compilazione raccogliendo materiali ed impressioni.

Fino ad oggi ci siamo fermati alla pura descrizione, ma semplicemente osservare non significa comprendere, far proprio un metodo conoscitivo, che consenta di relazionare la propria esperienza ad altre.

I primi giorni del blog, durante la settimana del workshop, sono stati colmi di interventi, ma ora che questo finisce, che funzione avrà il blog? Ricordare? Certamente la memoria, il tramandare questa esperienza, è un tassello importante per la gestione del blog, ma non potrà essere l’unico. Le immagini ed i contributi devono essere spunti per le nostre considerazioni. L’analisi critica di quello che è successo in quei giorni, ritengo debba essere la tappa successiva del nostro lavoro.

Ricordare, raccontare, tramandare, questi sono i passaggi che ognuno di noi dovrebbe fare. Il blog dovrebbe diventare uno strumento attraverso cui implementare le nostre conoscenze. In tal senso potrebbe essere il punto di incontro di riflessioni diverse.

Giocando al Rialzo

di Giancarlo Curio

Sabato sera, rientrando a casa in una zona di negozi e palazzine dopo la consegna dei lavori del workshop, ho fatto quasi fatica a credere di essere nella stessa città in cui stavo pranzando poche ore prima. Certo il caos, le luci, le vetrine di Viale Marconi contribuiscono alla differenza di sensazioni. Ma forse la differenza più grande è quella di aggirarsi in un luogo che sembra consolidato, quasi arreso al suo uso e al suo destino non modificabile (più per abitudine che per altro), e dall'altra parte aver visto un luogo che è provvisorio, neonato e modificabile, cioè Metropoliz.
L'ex-industria Fiorucci, nel suo essere fatiscente in alcune parti e abitata e “lavorata” in altre, è ricca di potenzialità, come una pagina ancora in gran parte da scrivere. Potenzialità che in qualche modo abbiamo esplorato con il lavoro nelle due aule. Vedere già da subito i bambini impossessarsi delle aule, sfogare finalmente e disperatamente i loro pensieri sulla lavagna è già un buon motivo per riconoscere nell'esperienza una forte utilità.
Dall'altra parte gli abitanti di Metropoliz con cui abbiamo parlato (che probabilmente, vista l'esiguità dei giorni, sono quelli che volevano farsi trovare) hanno espresso più volte la loro volontà di trovare un altro posto dove trasferirsi al più presto.
In un luogo dove la transitorietà e la temporaneità sono auspicati, un lavoro che porta un po' di possibilità e spazi in più per i suoi abitanti ha senso? Oppure è solo un ideale romantico?
Ha senso, come detto, vedendo gli abitanti cooperare e i bambini giocare in questi spazi.
E ha senso pensando alle derive a cui ci porta l'abitudine.
La mia città, L'Aquila, da un anno è stata letteralmente distribuita in piccole new-town (che dovrebbero essere anche queste temporanee) a 5 km da ogni servizio e prive di qualsiasi spazio in comune.
Per me, in una situazione come quella di Metropoliz, che nonostante presenti difficoltà economiche e sociali, vedere gli abitanti che occupano parte della loro giornata nella cura di spazi in comune dedicati (ebbene sì) alla cultura, è motivo di riflessione e anche di speranza. L'uomo è un essere abitudinario, e a L'Aquila gli abitanti ci hanno messo poco a dimenticarsi che serve un luogo dove potersi confrontare, parlare, imparare. Tutto questo nel nome di un “tanto lì ci rimango per poco”.
Anche a Metropoliz forse le famiglie rimarranno per poco, ma è tremendo negarsi delle esperienze con le altre persone, abituarsi a quello che già c'è.
È tremendo perché esiste il rischio di rimanere a un livello più basso di vita ed esperienze, un livello senza via di uscita, e a L'Aquila sta già succedendo.
A Metropoliz, anche con piccoli gesti, abbiamo invece giocato al rialzo.

Chi ha aiutato chi? (Agnese Carducci)

Lunedì, dopo la presentazione del workshop, ero preoccupata! Ingenuamente mi immaginavo un mondo totalmente diverso da quello che ho imparato ad apprezzare durante la settimana di permanenza a Metropoliz. Quello che mi ha stupito di più inizialmente è la forte organizzazione alla base di tutto; le regole che la comunità si è imposta, a cominciare dalla partecipazione obbligatoria alle assemblee, fino ad arrivare alla coerente organizzazione del lavoro e del modo di assegnazione alle famiglie di luoghi per la costruzione delle nuove case. Probabilmente nessuno, tra le persone che abbiamo incontrato, desidera vivere a Metropoliz, ma quello che si nota è una grande voglia di fare, di migliorare il luogo e di creare nuovi spazi per la vita collettiva, da parte di molti degli occupanti. Noi studenti di architettura siamo stati catapultati all’interno di un processo che è cominciato senza di noi e che sarebbe, probabilmente, proseguito anche senza il nostro intervento. Dovevamo rendere vivibili due luoghi: uno destinato all’area gioco dei bambini e l’altro destinato ad accogliere un’ aula di italiano. Il fatto di aver verniciato di giallo le finestre, di aver rivestito una parete o di aver costruito dei banchi non è stato secondo me importante, perché, con molta probabilità, l’appropriazione delle parti della fabbrica su cui abbiamo agito, sarebbe avvenuta ugualmente da parte degli occupanti, se non per l’aula, per fare altre cose. Tra gli abitanti di Metropoliz ci sono persone in grado di fare quasi tutti i lavori necessari per rendere accoglienti gli ambienti della fabbrica; ed in effetti, prima del nostro arrivo, erano stati ripulite altre due stanze ed un’altra, non prevista come ambito di intervento, è stata liberata dalla sporcizia dalle donne dell’occupazione, su loro iniziativa, durante la nostra permanenza. Il ruolo che secondo me abbiamo avuto, e che ha dato un senso alla nostra presenza, è di “catalizzatore”, per aver accelerato la creazione di spazi collettivi e di “collante” per essere riusciti a coinvolgere quelle persone che, quegli spazi collettivi, non avrebbero mai pensato di frequentarli. In realtà siamo serviti poco a Metropoliz, che, invece, di rimando, c’ha donato tantissimo, insegnandoci che la casa non deve essere per forza un tempio per accogliere il calore della famiglia; che è meglio avere uno spazio pubblico arrangiato, ma pieno di persone, piuttosto che uno strabiliante, ma vuoto; che progettare stando di fronte al computer senza conoscere i desideri e i pensieri delle persone è un errore oltre ad essere una grande occasione persa a livello umano.

Vivere la progettazione (di Susanna Paradisi)

Siamo stati abituati a progettare pensando ad un ipotetico committente, in alcuni casi a basarci sulle necessità, già dichiarate, di un comitato di quartiere di una zona periferica della città; a riunirci in piccoli gruppi, per produrre un elaborato finale che risulti il migliore di tutti gli altri.
Poi il lunedì mattina con la premessa che tutto sarebbe stato diverso dal solito, ci siamo ritrovati all’interno di Metropoliz, diventando partecipanti attivi di questo luogo in mutazione.
Abbiamo dovuto prendere in considerazione delle necessità reali di una parte della città di cui conoscevamo ben poco in quanto nessuno ci aveva mai fornito spiegazioni a riguardo, e che è possibile comprendere a fondo solo se vissuta direttamente. Una vera e propria comunità, anche se ancora poco legata, con il bisogno di creare degli spazi comuni che possano accogliere grandi e piccoli “in sicurezza”, per portare avanti attività già svolte nei pochi spazi disponibili.
Un passo importante in un'occupazione ancora giovane, in cui culture completamente diverse formate da un numero considerevole di bambini, devono confrontarsi e convivere,. Proprio quelli sono stati i committenti, progettisti ed esecutori del loro nuovo spazio. Nei pomeriggi trascorsi insieme nello spazio adibito alle assemblee, tutti sono stati felici di raccontarci quali sono gli spazi che vivono, i giochi che svolgono e le loro necessità. Non è servito molto per scatenare la loro fantasia: tanti fogli e colori hanno unito il gruppo permettendoci di capire come sia semplice, ancora oggi, adattarsi ai materiali che si hanno a disposizione. Questa limitazione è stata sentita in modo evidente per la progettazione dei nuovi spazi, in cui l’ingegno ha contribuito ad arrivare ad un lavoro finito di forte impatto per tutti.
Un primo passo, all’interno di quel cancello, che ha dimostrato a noi e a loro quanto sia importante unire le forze per raggiungere un obiettivo comune, confidando nella possibilità che gli abitanti del quartiere possano un giorno affacciarsi incuriositi e scoprire uno spazio che può essere utilizzato insieme.
Quello che mi fa ben sperare alla fine di questa forte esperienza è che tutti gli abitanti, oltre ad accoglierci a braccia aperte, si sono sentiti responsabili di questi nuovi spazi collaborando insieme a noi per vederli completati. E con un po’ di emozione, durante la festa di sabato, alcuni bambini hanno sfruttato la possibilità che gli è stata concessa confermandoci l’utilità del nostro lavoro.



Childhood is measured out by sounds and smells and sights
before the dark hour of reason grows.
(Il bambino con il pigiama a righe, John Betjeman)