venerdì 19 novembre 2010

Metropoliz: occhi a confronto (Susanna Fagotti)

Poter esprimere un’impressione, una sensazione sull’esperienza vissuta in una settimana a Metropoliz significa rileggere tutto con due occhi, quello investigativo del primo giorno e quello cosciente e arricchito dell’ultimo. A posteriori, le mie riflessioni si focalizzano più sulla percezione degli spazi abitativi, su come questi vengano gestiti all’interno dell’occupazione e di come, vivendoli, abbiano tradito le mie aspettative. In maniera forse un po’ ingenua, ho creduto, sin dall’inizio, di dover affrontare una realtà in cui le abitazioni fossero semplici baracche e in cui lo “spazio privato” fosse ridotto al minimo indispensabile: è stato sufficiente il primo giro di “perlustrazione” per capire quanti meccanismi di sopravvivenza mi fossero ancora ignoti . In primis, l’uso del mattone e dunque la costruzione di vere e proprie micro-abitazioni volte ad ospitare spesso più di un nucleo (una famiglia o un singolo componente) e di come queste si fossero propriamente aggregate in base al grado di integrazione tra le diverse etnie, fratture culturali che avrei totalmente escluso in un campo di coabitazione. Se non fosse per la fabbrica dismessa, Metropoliz mancherebbe di un reale nucleo centrale, per questo motivo, si è ben pensato di sfruttare i suoi vani in disuso per quelle attività di necessaria fusione, quali la scuola di italiano e un’aula per bambini. Lo scopo non è stato quello di forzare le abitudini degli abitanti, per far prevalere la nostra idea di “gestione degli spazi”, ma, anzi, di piegare le nostre visioni a quelle di un sistema di vita ormai avviato: non a caso, il lavoro è stato perlopiù di “riqualificazione” di ambienti da adibire ad attività già esistenti. Essendo il privato favorito a scapito del pubblico, l’intento è stato quello di concentrare il più possibile gli spazi comuni, così da evitarne la dispersione: da qui la scelta della vicinanza dell’aula per l’insegnamento e di quella per i bambini, entrambe facilmente accessibili dalla sala riunioni, il primo degli spazi collettivi. L’avvio di un intervento“ non invasivo” è stato guidato dalla speranza che questo breve lavoro non venga vanificato nel tempo, ma che possa essere almeno un incentivo ad un’ attività di squadra per il miglioramento della vita tutti. Se cambiare la qualità architettonica di un’aula, dipingendo un muro o inserendo degli arredi può essere da una parte un intervento spicciolo e di utilità ancora acerba, dall’altra si riserva un’enorme potenzialità, come un seme che fa nascere un frutto.






1 commento:

  1. ciao susanna,
    bene che evidenzi la questione spazio pubblico vs. spazio privato e inserisci il nostro intervento nella necessaria creazione di spazi che siano condivisi da tutti.
    La divisione interna al metropoliz di cui parli rappresenta un tema uscito fuori anche in altri saggi, confrontati con qualche altro studente se ti va...
    Non capisco la questione baracche/mattone... ma penso che sia solo un corollario della tua delusione nel vedere la 'privatizzazione' (in gergo puoi dire 'enclosure') di spazi che uno potrebbe aspettarsi invece completamente 'aperti'.
    Secondo te però come si avvia questo meccanismo? ti sei chiesta perché avevi quelle aspettative? cosa porta un vuoto urbano come Metropoliz a 'chiudersi' (verso l'esterno ma anche internamente)? (una cosa che ho scritto di recente provava a dare una risposta a questa domanda, se ti interessasse ho un po' di cose da passarti, scrivimi nel caso)

    Giorgio

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