sabato 20 novembre 2010

La partecipazione come mezzo o come fine.

Una delle prime cose che ci disse il professor Careri prima che ci avviassimo era: “Ricordate, non stiamo andando a fare le elemosina…”. Ecco, forse solo alla fine della settimana ho realmente capito cosa intendesse il professore con queste parole. La mia difficoltà nell’afferrare il concetto che ho recepito solo l’ultimo giorno era data dalla mia voglia di portare a termine un lavoro. Quando sono arrivato a Metropoliz sono rimasto stordito da una situazione più complessa di quella che mi ero cercato di immaginare e i primi giorni tornavo a casa frustrato perché non riuscivo a capire come un nostro intervento potesse aiutare a risolvere problemi che molti occupanti non si erano nemmeno posti. Mi sono sentito dire da più persone che la partecipazione che andavamo cercando non era il mezzo per arrivare a qualcosa ma il fine del nostro workshop. Mi sono chiesto se la partecipazione fosse un lusso che gli occupanti di Metropoliz si potevano permettere abitando in case che non si avvicinano minimamente agli standard a cui sono abituato. Ho pensato, dopo due o tre giorni che potrei definire eufemisticamente “poco produttivi”, che non stessimo dando un buon esempio di partecipazione perché agli occupanti di Metropoliz non serviva una bella idea ma qualcosa di fattibile e che quello che noi stavamo proponendo non lo fosse. Se la partecipazione è il fine deve comunque portare a qualcosa di buono perché, paradossalmente, per essere un fine a cui bisogna ambire deve anche essere il mezzo per arrivare a qualcosa di migliore, o per lo meno equivalente, della non partecipazione… altrimenti che senso ha partecipare? Se ottengo risultati migliori e in tempi più brevi senza consultare gli altri perché dovrei partecipare? In pratica riflettevo sul fatto che la partecipazione come fine si da una bella zappata sui piedi se allo stesso tempo non è anche il mezzo per arrivare a qualcosa di utile, altrimenti rimane solo una bella e impraticabile idea.
Ebbene, dopo tre frustranti giorni di partecipazione come fine ho notato che l’interesse dei metropolizensi (metropolizini?) aumentava. Cresceva la voglia di, appunto, partecipare a creare il loro spazio, di mettere mano e contribuire alla realizzazione di spazi che prima non avevano, per migliorare la qualità degli spazi che avevano a disposizione. Ho capito quello che davo per scontato: la partecipazione ti coinvolge e il tuo contributo rende più tuo lo spazio che stai creando. Forse non sarà la soluzione finale quella a cui siamo arrivati sabato ma si è avviato un processo importante per qualsiasi comunità. La partecipazione come fine è stata il mezzo per arrivare all’idea di uno spazio comune.


Matthew Hart

3 commenti:

  1. ciao Matthew,
    eccellente, ho apprezzato davvero molto. Ti poni delle domande più che legittime e rispondi in modo abbastanza esaustivo: come ho detto ad altri (piccola critica) sarebbe stato meglio rimaneggiare un po’ di più la prima parte per poi potersi dilungare nella seconda... ma va molto bene comunque, getta le basi per altre riflessioni che verranno in futuro. L’ultima frase in particolare raccoglie in poche parole il senso di tutta l’operazione (mia opinione): appartenenza, memoria, collettività... ovvero “l’idea di uno spazio comune”, quasi in senso platonico, qualcosa che viene prima dello spazio comune stesso... Sei d’accordo?
    Bravissimo ancora.

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  2. dopo aver letto il commento ho riletto a mente fredda quello che ho scritto.
    credo che la difficoltà di esprimere il pensiero riguardante la prima parte vada in parallelo con la difficoltà di agire in maniera concreta nei primi 3 giorni di workshop mentre la seconda parte mi viene più scorrevole proprio perchè a quel punto erano diminuiti i pensieri "contorti" e contrastanti.
    Comunque si, sono d'accordo con quello che dici: prima di poter pensare di creare uno spazio comune bisogna avere la voglia, quest'ultima ti spinge ad affrontare quei "problemi" che prima non ti poni, per arrivare un giorno ad avere un vero e proprio spazio comune... però non lo ottieni se non hai mai quella voglia, quella spinta. Certo, è vero per tutte le cose che per ottenerle devi prima volerle, ma qui non si parla del colore delle piastrelle del bagno della casa che si sta aggiustando uno degli occupanti ma di uno spazio che coinvolge tutti e spero che la nostra presenza gli abbia fatto venire la voglia di provare a sfruttare i potenziali spazi comuni che hanno. Non mi sentirò certo offeso se un giorno decidono di levare i pannelli dalla sala bambini perchè non gli piacciono anzi, mi sentirei gratificato perchè sarebbe un'indicazione di critica nei confronti di uno spazio che prima non consideravano, sarebbe a mio parere la voglia di far evolvere lo spazio comune e quindi farlo ancora più loro.

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  3. ciao matthew
    mi sembra una bella riflessione la tua e anche il tuo scmabio con george. si credo che in definitia bisogna mettere insime le due parole partecipazione-appropriazione, e l'appropriazione nasce dal desiderio, tu la chiami voglia... ed è proprio è quello che si deve far scoccare con la partecipazione! spazio desiderato è spazio di cui si sente crescere un sentimento che sia sempre più proprio, che permette poi di predersene cura.
    bene
    il prof

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