giovedì 18 novembre 2010

C'è un mondo al di là del mio (Debora Iacoangeli)

“I luoghi ci sono consoni al pari delle persone e per questo quando uno cambia luogo si perde. Perdersi è la grazia che il mondo ci fa di ricordarci che, nonostante la nostra tendenza all’astrazione e alla rarefazione, noi siamo da qualche parte e questo qualche parte diventa una parte di noi.” (F. La Cecla, Perdersi L’uomo senza ambiente) E’ stata propria la nostra disponibilità a perderci completamente in un luogo a noi del tutto estraneo che ci ha permesso, secondo me, di rapportarci nel modo più consono a quest’esperienza. Buttando giù il muro dei nostri pregiudizi, provando a conoscere le mille storie di altrettante culture differenti e vivendo in prima persona quelle che potessero essere le necessità e le complessità di una convivenza così variegata, ci hanno predisposto ad un “approccio progettuale” che definirei più umile. L’università ci stimola, spesso, a diventare “macchine da esame” e per le tempistiche sempre strette e serrate si tende a tralasciare proprio la fase di CONOSCENZA del sito oggetto di studio; ma credo che la conoscenza sia l’unico punto di partenza che ti permetta di intervenire davvero in modo coerente. In una società dove l’architetto di successo deve stupire e sbalordire, investendo spesso enormi capitali per la lusinga del proprio ego personale e per il soddisfacimento di interessi molto più politici ed economici invece che perseguire come scopo principale l’utilità e l’impatto sociale, porsi allo stesso livello degli utenti che vivranno in prima persona l’intervento mi sembra una grande opportunità formativa. Troppo spesso mi sembra di cogliere negli studenti di architettura quel germe di onnipotenza e di sicurezza in se stessi che rischia di sfociare, poi, in un esagerata disinvoltura nel progettare; entrare così profondamente a contatto con una situazione di emergenza abitativa mi sembra un’occasione importantissima per inserire noi studenti nella realtà quotidiana (anche se in situazioni un pochino più estreme) invece che preservarci sotto un’immaginaria cupola di vetro di accademismo ed aulicità, forse troppo lontana dal “mestiere di architetto”.
Nello stesso modo in cui, all’inizio di quest’esperienza, abbiamo accettato di perderci, alla fine della settimana “questo qualche parte è diventato una parte di noi” poiché è solo tramite la conoscenza che si può far nascere il senso di appartenenza, che in modi diversi mi sembra sia nato in ognuno di noi; Il metropoliz non è un’isola felice ma è una realtà, conoscerla e farla conoscere mi sembra un’opportunità di crescita per noi e un’occasione di inserimento e compenetrazione dell’occupazione stessa con la nostra società.

1 commento:

  1. cara Debora,
    il tuo è uno dei pochi post che ho letto finora ad avere una struttura chiarissima, con una conclusione che richiama giustamente i concetti introdotti nelle prime righe, brava.
    Condivido pienamente quello che dici sulla necessità di conoscenza. Metropoliz non è una isola felice ma una realtà, brava. Farla conoscere però che significa? Rifletti nel futuro su cosa significa 'produrre' una conoscenza, chi viene coinvolto in questo, quali rischi ci sono. Cosa significa questo blog? Come si può rendere partecipata la production of knowledge? Che interazione c'è con la produzione di spazio?
    Bene quando colleghi l'occupazione alla società.
    Per ciò che riguarda senso di appartenenza (da parte di chi? nostra?) e conoscenza penso però che siano due cose distinte, anche se capisco che la tua argomentazione parte dalle parole di La Cecla e ti porta quindi a scrivere in quel modo... A chi si rivolge lui secondo te?

    davvero ottimo,
    Giorgio

    p.s. a proposito di questi architetti che soddisfano il loro ego personale... non semplificare troppo, rischi di far perdere credibilità all'intero post e finire nella retorica...
    le dinamiche (globali) di sviluppo economico portano enormi capitali verso alcune aree della città, giudicate in un certo senso 'strategiche' per portare ulteriore sviluppo... la componente 'spettacolare' è richiesta dal capitale stesso che si auto-celebra... l'architetto è quello che (connivente, certo) è alla fine del processo...
    chi ti scrive pensa che questo processo è inarrestabile, quindi hai due possibilità: 1- ti arrabbi; 2- rispondi a questa mia domanda: come collochi Metropoliz all'interno di queste dinamiche? Cosa t'insegna?

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