venerdì 19 novembre 2010

Politically correct

E finalmente un’esperienza nuova che ci obbliga ad uscire dalle aule per andarci a scontrare con la realtà, la realtà dura e cruda di un gruppo di persone a cui è stato vietato un diritto innegabile: il diritto di avere una casa. Una necessità non solo fisica ma un luogo dove trovare riparo, dove formare una famiglia, dove riconoscersi e sviluppare una propria identità.

Sono arrivata a Metropoliz e mai mi sarei aspettata di trovare un mondo così multiforme: un miscuglio di etnie, lingue e costumi, assortiti dietro le mura di quella fabbrica abbandonata. Lì c’è un altro mondo nascosto, non percepibile dall’esterno, che vive parallelo al resto del quartiere senza purtroppo mai incontrarlo, e per quanto splendido possa essere è intrinseco di problemi e fragilità. Sono entrata in punta di piedi, con il timore di essere un elemento scomodo, infastidita da persone che pensavano anche solo di poter dare un contributo in una situazione così complicata, basata su equilibri delicatissimi. Le proposte che ci venivano fatte mi sembravano inutili: Cosa se ne fa un genitore di un’aula gioco per il proprio figlio se non può nemmeno assicurargli una doccia calda? Mi sembrava di imporre la nostra presenza e mi chiedevo perché dovessero accettare una simile invasione nel loro territorio. Ma loro ci hanno aperto le porte delle loro case, ci hanno mostrato come vivono e con quanto amore, ma soprattutto con quanta dignità, si prendono cura di quei piccoli spazi; e allora ci siamo lasciati guidare e abbiamo messo a disposizione noi stessi, estranei in quel mondo che non conoscevamo. Ho visto crescere in noi il desiderio di renderci utili, la voglia di fare e la necessità di fare; ho visto persone diventare una squadra e mani che da dieci diventavano cento e poi ancora di più; ho visto la voglia spasmodica di portare, a tutti i costi, a termine un lavoro che andava oltre le nostre aspettative, e gli abitanti di Metropoliz collaborare con noi verso un progetto comune.

Questa settimana forse abbiamo arricchito e dato un significato nuovo al nostro mestiere, siamo entrati in un mondo fatto non solo di misure, forme e materiali, ma qualcosa di più complesso che porta le persone a collaborare tra loro, a creare spazi e a plasmare luoghi comuni con la voglia di sentirli anche un po’ propri.

A me è bastato vedere giocare i bambini all’interno di questa nuova realtà, e la gratitudine negli occhi degli abitanti per capire che questa esperienza è stata un successo.

Marta Palmieri

2 commenti:

  1. ciao Marta,
    sollevi temi interessanti, la multiculturalità, il senso di appartenenza, la crescita della partecipazione nel corso dei giorni. Importante l’osservazione sull’acqua calda, è come dire “cosa importo a loro di formarsi una coscienza politica se non hanno di che mangiare?”.. Sapresti rispondere?
    Molto bello che tu dica “senso nuovo al nostro mestiere”: la realtà ci obbliga a reinventarci come professionisti e il fatto che tu l’abbia colto (e che continui a ragionarci su) è importantissimo.
    Conclusione un po’ naive: non cadere mai nella trappola della retorica, rischi di invalidare quello che hai scritto sopra!
    Ottimo comunque!

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