sabato 20 novembre 2010

Progettisti della transitorietà (di Raffaele Trabace)

L’immersione nella complessa realtà di Metropoliz ha suscitato in me immediata curiosità e volontà di conoscere una realtà per me nuova.
Metropoliz mi è apparso un contenitore di diversi modi di vivere, dalle innumerevoli possibilità, in cui ogni occupante ha gradualmente definito il proprio spazio privato con i mezzi che aveva a disposizione.
L’osservazione diretta mi ha riportato alla mente alcune riflessioni che l’architetto olandese John Habraken faceva a proposito delle “support structures”, strutture di supporto progettate, con dotazioni minime, dagli architetti e nelle quali gli abitanti definivano il loro spazio abitativo.
Ho associato Metropoliz all’idea di una struttura di supporto, i cui spazi possono cambiare pelle innumerevoli volte, a seconda di chi li occupa e degli usi a cui vengono destinati.
La struttura di supporto è qui rappresentata da capannoni dismessi ed edifici abbandonati, strutture largamente diffuse nelle nostre città, che rivivono in una situazione estrema come quella che coinvolge chi una casa “normale” non la possiede.
Il paragone può sembrare azzardato, ma quello che mi colpisce è che Metropoliz mi appare una situazione sicuramente più democratica dal punto di vista dell’architettura partecipata e del coinvolgimento diretto dell’abitante nella definizione del proprio spazio abitativo, tenendo presente il contesto particolare in cui ogni abitante è coinvolto.
Mentre nelle ipotesi teoriche di Habraken l’architetto riveste un ruolo di “mediatore” tra costruttori/investitori e cittadini, nell’esperienza Metropoliz il nostro ruolo mi è sembrato piuttosto quello di progettisti della transitorietà.
Nel senso che siamo stati coinvolti dapprima nella colonizzazione di spazi inutilizzati del complesso e successivamente nell’allestimento di spazi quantomeno vivibili per gli occupanti.
Inizialmente mi risultava difficile accettare l’idea di “progettare” spazi che fisicamente sarebbero potuti durare un anno, un mese se non qualche giorno, ma poi ne ho gradualmente capito le potenzialità.
L’intervento è da valutare in un’ottica più ampia, che va dall’appropriazione di un posto alla sua graduale trasformazione in uno spazio.
Gli “spazi comuni” da noi realizzati in realtà saranno in futuro lo specchio dell’integrazione tra gli abitanti e delle loro necessità che di volta in volta potranno cambiare.
L’aver partecipato alla progettazione di una “possibilità” credo ci abbia inseriti nel complesso processo di integrazione tra gli occupanti che questi spazi potranno rappresentare.

1 commento:

  1. ciao Raffaele,

    davvero un ottimo post. Mi piace l'idea di support structure, e secondo me ti può portare facilmente anche a un paragone con i concetto di 'riparo sovrano' (Auguste Perret) e di 'monumento' (Aldo Rossi), esaltante.
    Per ciò che riguarda il nostro ruolo: mi piace la definizione che hai dato... Penso però che devi fare un passo in più e chiederti: se Habraken vedeva l'architetto come mediatore tra... allora noi tra quali forze mediamo? E anche: cosa significa 'mediare' in una situazione di transitorietà?
    Penso che siamo comunque 'mediatori', anche se sicuramente non neutrali (lo dici un po' nell'ultima frase).
    Benissimo la penultima: 'spazi comuni' come specchio dell'integrazione e delle loro necessità, che nel tempo cambieranno,ferma restando la struttura di supporto no? (chiamiamola 'monumento' dai... eheh, io sono di parte). Ottimo davvero.

    Giorgio

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